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La depressione è una questione di pancia?

Gli ultimi studi indicano un forte legame tra la malattia e il microbiota intestinale. Ecco cosa dicono

Difficile sconfiggere la «bestia nera» finché non si individua con certezza la sua tana. Per anni si è pensato che si annidasse solo nel cervello, ma oggi sempre più indizi ci portano a un secondo nascondiglio: l’intestino. È lì che la depressione cerca di sfamarsi, ma in condizioni di stress non trova il nutrimento necessario a placare il suo tormento. A sottrarglielo sono i batteri del microbiota, miliardi di microrganismi che abitano l’intestino umano e che sono diventati ormai sorvegliati speciali sotto la lente di medici e scienziati.

Intestino e cervello: un forte legame

Fino a una decina di anni fa l’idea che potessero influire sulla mente veniva bollata come fantasiosa: sebbene si fosse intuito un legame tra cervello e intestino, che aveva portato a prescrivere farmaci antidepressivi ai pazienti affetti da colite, si pensava che questo asse di comunicazione fra i due organi fosse a senso unico. Oggi, però, sono sempre più numerosi gli studi scientifici che indicano come questa strada sia in realtà a doppio senso.

Gruppo San Donato

Nei depressi scarseggiano due ceppi batterici

L’ultimo in ordine di tempo arriva dal Belgio, dove i ricercatori dell’Università di Lovanio hanno mappato il Dna del microbiota intestinale di mille persone per identificare le specie batteriche presenti e metterle in correlazione con eventuali sintomi depressivi. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Microbiology, dimostrano che nelle persone depresse  scarseggiano due particolari ceppi batterici, chiamati CoprococcusDialister. Inoltre, la qualità della vita peggiora quando cala la capacità del microbiota di produrre una molecola (l’acido diidrossifenilacetico) che è generata dalla degradazione dell’ormone della felicità, la dopamina.

I batteri influenzano l’ormone del buonumore

Sul metabolismo del microbiota e il suo rapporto con i disturbi dell’umore si sta concentrando anche il gruppo di ricerca tutto italiano guidato da Massimo Cocchi, presidente della Società italiana di biologia sperimentale (Sibs) e docente di biochimica della nutrizione all’Università di Bologna. «È stato scientificamente dimostrato che in caso di stress il microbiota intestinale “demolisce” l’amminoacido triptofano, il “mattone” che attraverso il circolo sanguigno viene trasportato dall’intestino al cervello per costruire l’ormone del buonumore, cioè la serotonina», afferma l’esperto. «Se questo amminoacido non è disponibile in quantità sufficienti, nel cervello calano i livelli di serotonina: ciò può scatenare la depressione nei soggetti predisposti oppure aggravare i sintomi nei pazienti già colpiti dalla malattia».

Cosa modifica i batteri buoni che abbiamo nell’intestino?

Il parto prematuro come fattore di rischio

Questo effetto domino tra intestino e cervello potrebbe perfino essere responsabile del frastuono molecolare che risveglia la «bestia nera» nelle neomamme, scatenando la depressione post-partum che solo in Italia colpisce centomila donne ogni anno. L’ipotesi davvero suggestiva a cui sta lavorando il gruppo di Cocchi indica la possibilità che «lo stress causato da un parto prematuro possa indurre il microbiota intestinale della madre a distruggere il triptofano, riducendo di conseguenza la produzione di serotonina a livello cerebrale». E la cosa potrebbe non finire qui. «Bisogna infatti ricordare che negli ultimi tre mesi della gravidanza la madre passa al feto tutti quegli acidi grassi polinsaturi a lunga catena (come l’acido arachidonico e il DHA) che sono cruciali per lo sviluppo del cervello. Se la gravidanza si conclude prima del termine interrompendo questo passaggio, nel corpo della madre si ha un accumulo di acidi grassi che vanno ad aumentare la fluidità della
membrana cellulare dei neuroni del cervello: si riduce così la loro capacità di captare la serotonina, che già scarseggia a causa dell’azione del microbiota intestinale». Potrebbe dunque essere questa la «tempesta perfetta» capace di scatenare la depressione nelle donne che hanno già una predisposizione. Dimostrarlo sarà difficile, ammette Cocchi, «perché simili studi sul cervello si possono fare solo su modelli animali, non certo nelle donne, ma le prove raccolte finora sembrano indicare che stiamo seguendo la strada giusta».

Depressione post partum colpisce anche i papà

La sperimentazione degli psicobiotici

A battere questa pista, che porta dal microbiota al cervello, ci sono ormai moltissimi gruppi di ricerca di tutto il mondo. L’ipotesi che si sta facendo largo è che l’intestino delle persone depresse presenti un microbiota caratteristico, con una diversa combinazione di ceppi batterici. Alcuni studi hanno già iniziato a stringere il cerchio intorno a questi indiziati, ma non solo. «Si stanno già identificando alcuni batteri che possono avere un effetto protettivo contro la depressione, come il Lactobacillus rhamnosus e il Bifidobacterium longum che nell’intestino producono sostanze capaci di migliorare la produzione del neurotrasmettitore GABA nel cervello, riducendo così il rischio di depressione», aggiunge Cocchi. Sperimentazione dopo sperimentazione, questi ceppi batterici stanno finendo sempre più spesso in capsule e bustine, guadagnandosi sul campo la promozione da semplici probiotici utili al benessere intestinale a «psicobiotici» capaci di agire sulla mente. «Alcuni sono già disponibili in farmacia come prodotti da banco», spiega l’esperto. «Possono essere affiancati alla tradizionale terapia con antidepressivi, perché non interferiscono con i farmaci, bensì agiscono in maniera fisiologica regolarizzando la funzione dei meccanismi dell’organismo. Gli effetti non sono immediati, ma con un po’ di pazienza si può apprezzare un miglioramento dei sintomi».

Nuovi test molecolari per la diagnosi corretta

L’utilità del microbiota, però, non si esaurisce qui: è possibile che in un futuro non troppo lontano l’analisi dei batteri intestinali possa aiutare a inquadrare meglio la condizione clinica del paziente, per mettere a punto strategie terapeutiche sempre più personalizzate. Un importante passo avanti, se consideriamo che oggi la diagnosi di depressione si basa ancora sui sintomi riferiti dal malato e sull’uso di questionari: i margini di errore restano alti e rischiano di portare alla prescrizione di terapie sbagliate. La svolta potrebbe arrivare grazie a nuovi esami del sangue capaci di riconoscere in modo inequivocabile l’impronta molecolare della depressione. Uno è già stato messo a punto dal gruppo di ricerca di Massimo Cocchi, che ha sviluppato un test capace di diagnosticare la depressione distinguendola dal disturbo bipolare. «Nelle fasi iniziali queste due malattie possono causare sintomi molto simili e facilmente confondibili, ma nella realtà sono determinate da meccanismi completamente diversi che richiedono terapie differenti: l’errata prescrizione di un farmaco non è solo inefficace, ma può comportare gravi rischi per la salute del paziente», sottolinea Cocchi. Per evitare questa confusione, i ricercatori hanno scoperto che basta analizzare gli acidi grassi che compongono la membrana cellulare delle piastrine del sangue: questi sono gli stessi presenti anche nei neuroni del cervello, nei quali determinano la capacità di captare l’ormone del buonumore, la serotonina. Altri test molecolari per la diagnosi della depressione potrebbero arrivare nel giro di cinque anni, come previsto sulla rivista Expert Reviews of Proteomics da due ricercatori italiani dell’Università dell’Illinois, Dario Aspesi e Graziano Pinna. Anche la loro équipe sta mettendo a punto un esame del sangue che va alla ricerca di almeno venti molecole, la cui concentrazione è determinante per capire chi soffre di depressione o chi è incline al disturbo da stress post traumatico. Il test indicherà anche i pazienti che possono beneficiare di certi farmaci piuttosto che di altri, aiutando a personalizzare le terapie.

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