Salute

Osteoporosi: come si cura?

Stile di vita, integratori e farmaci: tutto quello che si può fare per salvare le ossa fragili

La cosa migliore da fare quando si parla di cura dell’osteoporosi è la prevenzione. Sembra un paradosso, ma è così. Più forte è il nostro scheletro, meno complessa sarà la situazione quando per uno dei fattori di rischio o per le cause svilupperemo questa malattia, che colpisce milioni di italiani.

In pochi si curano nel modo giusto 

Sono sempre meno gli italiani dalle ossa “super fragili” che vengono curati in maniera appropriata con i farmaci antifrattura. Questo genere di terapia sarebbe obbligata per chi ad esempio ha già rotto una vertebra, un femore, o assume cronicamente farmaci cortisonici che minacciano lo scheletro. Eppure l’accesso viene garantito solo al 20% dei pazienti che ne avrebbero diritto, il 6% in meno rispetto al 2010. E le conseguenze pesano non solo sulla salute dei malati, ma anche sulle casse dello Stato, visto che la mancata terapia costa ogni anno ben 32 milioni di euro. A denunciarlo, citando i dati dell’ultimo Rapporto OSMED dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), è Maria Luisa Brandi, docente di endocrinologia all’Università di Firenze e presidente della Fondazione Italiana per la Ricerca sulle Malattie dell’Osso (FIRMO).

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Insieme a lei facciamo il punto sulle terapie disponibili e su quelle che verranno per mettere in “cassaforte” le nostre ossa.

La terapia è sempre farmacologica o ne esistono altre?

Non sempre: il tipo di trattamento va scelto in modo personalizzato in base al livello di fragilità delle ossa. Per esempio, nei casi più lievi di osteopenia si ha una riduzione della massa ossea ma non una vera e propria osteoporosi conclamata. Qui è ancora possibile fare prevenzione delle fratture semplicemente correggendo lo stile di vita. Questo vale soprattutto per quelle persone che non assumono abbastanza calcio con la dieta e che fanno una vita sedentaria. Anche l’integrazione con vitamina D è molto utile, in caso di carenza e soprattutto nelle donne in menopausa. Solitamente i benefici di questi interventi vengono valutati a distanza di uno o due anni. Se la situazione è stabile o addirittura migliorata, si può continuare con questa strategia preventiva monitorando attentamente nel tempo.

Quando i farmaci sono necessari?

Vanno sicuramente trattati i pazienti che hanno già subito una frattura da fragilità. Per tutti gli altri, la terapia deve essere valutata in base al rischio. Si calcola tenendo conto degli esiti della mineralometria ossea computerizzata (MOC) e dell’eventuale presenza di fattori come:

  • la carenza di calcio,
  • il fumo,
  • l’elevato consumo di alcol,
  • la menopausa precoce,
  • la familiarità per le fratture,
  • il bisogno di usare farmaci cortisonici per lunghi periodi.

In caso di osteoporosi secondaria qual è la terapia?

In questi casi, prima di curare l’osteoporosi vera e propria, si cerca se possibile di eliminare la causa a monte che la scatena. Pensiamo ad esempio ad un paziente osteoporotico con un adenoma delle ghiandole surrenali che produce cortisolo. In questo caso l’asportazione della massa tumorale può determinare un immediato miglioramento della fragilità ossea.

Differenze nella terapia tra uomo e donna

Al momento no. Tutti i farmaci che abbiamo a disposizione sono stati studiati e testati come antifratturativi sulla popolazione femminile. I medici li prescrivono però con le stesse modalità anche nell’uomo.

I risultati della terapia

I farmaci hanno successo fino al 70% dei casi nel prevenire le fratture. È però fondamentale che il paziente li assuma con i tempi e le modalità indicate dal medico, senza sospenderli prima del tempo. Per curare l’osteoporosi non basta prendere una pasticca e via, perché c’è sempre il rischio che il problema si ripresenti. Bisogna rassegnarsi all’idea di assumere farmaci per diversi anni, almeno fino a quando non si ripristina l’equilibrio metabolico e si mettono in sicurezza le ossa. In questi casi è possibile provare a sospendere in modo controllato i farmaci, ad esempio con una “vacanza terapeutica” di un anno, per poi rivalutare la situazione.

Bisfosfonati: quali sono i reali rischi e i benefici?

I bisfosfonati inibiscono il riassorbimento del tessuto osso e ne migliorano la quantità e/o la qualità, con risultati visibili anche dalla MOC. Nei primi anni Duemila, però, sono finiti al centro di una bufera mediatica. Uno studio condotto su pazienti con metastasi ossee aveva evidenziato un pesante effetto collaterale, l’osteonecrosi della mascella. Davanti a quella pubblicazione scientifica rimanemmo tutti stupefatti, perché nella nostra esperienza clinica non avevamo mai osservato un evento avverso simile. In quasi dieci anni erano stati trattati oltre 100 milioni di persone senza neanche un caso di osteonecrosi della mascella. Si è poi scoperto che la questione stava tutta nel dosaggio dei bisfosfonati, che nello studio sulle metastasi ossee erano stati usati in quantità enormemente superiori rispetto a quelle impiegate nella routine clinica contro l’osteoporosi.

Dunque i bisfosfonati sono farmaci sicuri?

Certamente. Gli unici effetti collaterali seri che possono dare si manifestano a livello dell’apparato digerente. Sono controindicati nelle persone che soffrono di problemi come ulcere e reflusso gastroesofageo. In questi casi si può ricorre in seconda istanza all’anticorpo monoclonale denosumab che, come i bisfosfonati, inibisce il riassorbimento dell’osso: disponibile ormai da anni, ha dimostrato una straordinaria efficacia, riducendo il rischio di fratture fino al 70%.

Come si curano i casi più gravi?

C’è il teriparatide, un farmaco molto potente che ha un effetto anabolico in grado di stimolare la formazione di nuovo osso. Considerato il costo molto elevato, può essere dato solo ai pazienti più gravi e per un massimo di due anni.

Le novità che arriveranno dalla ricerca

I farmaci che ci attendiamo per il prossimo futuro avranno anch’essi caratteristiche anaboliche. Mi riferisco in particolare all’abaloparatide, che stimola direttamente la formazione di nuovo osso, e all’anticorpo monoclonale romosozumab, in grado di disattivare una proteina che frena la formazione di nuovo osso.

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