Salute

Vitamina D e coronavirus: ci protegge dall’infezione?

La vitamina più importante per l’organismo è carente nella maggioranza della popolazione, aumentando il rischio di svariate malattie. Secondo alcuni scienziati l’integrazione potrebbe anche rivelarsi un’alleata contro il coronavirus

Che legame c’è tra vitamina D e coronavirus? Questa molecola potrebbe essere una valida alleata contro il nuovo nemico invisibile. Almeno questa è la tesi di alcuni scienziati, compresi gli italiani Giancarlo Isaia ed Enzo Medico. Rispettivamente professore ordinario di medicina interna e professore ordinario di istologia, entrambi all’Università di Torino. «È importante assicurare adeguati livelli di vitamina D a tutta la popolazione», chiariscono i docenti in un documento scritto a quattro mani. «Ma soprattutto alle persone già contagiate e ai loro familiari, al personale sanitario, agli anziani ospitati dalle residenze assistenziali, alle donne in gravidanza. Inoltre, si potrebbe considerare la somministrazione di calcitriolo, la forma attiva della vitamina D, tramite iniezione endovenosa nei pazienti affetti da Covid-19 e con funzionalità respiratoria particolarmente compromessa».

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Vitamina D e coronavirus: gli studi

A supporto di questa indicazione, gli studiosi elencano varie ricerche. Tra queste si annovera, ad esempio, una recentissima review pubblicata ad aprile su Nutrients. Sostiene che l’integrazione con vitamina D potrebbe ridurre il rischio di infezione e di decesso in caso di Covid-19. Altri lavori scientifici, del resto, avevano già sottolineato il ruolo positivo di questa molecola nell’arginare le infezioni respiratorie. Dall’innocuo raffreddore alla temibile polmonite. Nel 2010, sulla rivista Nature Immunolog, è uscito uno studio dell’università danese di Copenaghen che associa la carenza di vitamina D all’inefficienza del sistema immunitario.

In particolare, i linfociti T, i globuli bianchi che si attivano al bisogno per difenderci dall’attacco di virus, batteri e altri agenti estranei, non sarebbero in grado di reagire in modo adeguato e di combattere le infezioni che minacciano l’organismo. Sulla scia di queste considerazioni, un team di ricercatori dell’Università di Granada, in Spagna, ha avviato uno studio su 200 pazienti positivi al coronavirus. L’obiettivo è comprendere se l’assunzione di vitamina D possa effettivamente aiutare a contrastare la malattia.

Occorre esporsi al sole

Nel frattempo, resta fondamentale il ruolo nel buon funzionamento dell’organismo di questa vitamina. In realtà un ormone steroideo descritto per la prima volta nel 1919 dal medico tedesco Kurt Huldschinsky. La sua particolarità sta nel fatto che, a differenza di tutte le altre vitamine, come quelle del gruppo B, la C, la K, può essere introdotta solo in minima parte attraverso ciò che portiamo in tavola. La maggior parte (circa l’80%) viene infatti prodotta dalla pelle a partire dalla luce del sole. «In particolare, sotto l’azione dei raggi ultravioletti di tipo B, la cute produce un precursore della vitamina D, che è inattivo», spiega Andrea Giustina, primario dell’unità di endocrinologia dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano e professore ordinario di endocrinologia e metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele. Oltre che presidente della Società europea di endocrinologia e componente del Consiglio superiore di sanità.

«Affinché il precursore si attivi sono necessarie due successive reazioni chimiche, dette idrossilazioni. La prima nel fegato, dove si trasforma in 25-idrossivitamina D, e la seconda nei reni, dove diventa la 1,25-diidrossivitamina D. Solo quest’ultima è la forma attiva. Si tratta di un processo complicato che richiede, oltre all’esposizione solare, anche un adeguato funzionamento di fegato e reni».

Ne assumiamo poca dalla dieta

La restante quota di vitamina D (al massimo il 20%) che può essere introdotta grazie all’alimentazione non favorisce molto i vegetariani. Tra i cibi più ricchi, infatti, si annovera innanzitutto l’olio di fegato di merluzzo, seguito da pesci grassi come salmone, sgombro, pesce spada, tonno, sardine. Poi fegato di manzo, carne di maiale, latte, burro, formaggi e tuorlo d’uovo.

Rinforza ossa e muscoli

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Questo prezioso ormone è utile per una molteplicità di azioni, sia scheletriche sia extra-scheletriche. «Per quanto riguarda le prime, agisce sull’intestino determinando un aumento dell’assorbimento di calcio, un minerale introdotto attraverso gli alimenti. E favorisce il deposito di quest’ultimo nelle ossa, dando vita a quella che viene definita mineralizzazione», chiarisce l’endocrinologo. «Per quanto concerne, invece, le azioni extra-scheletriche, occorre sottolineare che quasi tutti gli organi e i tessuti possiedono un recettore per questa vitamina che li rende, quindi, sensibili alla sua azione. In particolare, la vitamina D agisce sulla funzionalità dei muscoli, sul rinnovamento e la crescita delle cellule, sulla modulazione del sistema immunitario, sulla regolazione dell’apparato cardiovascolare e dei livelli di insulina. Un ormone prodotto dal pancreas che controlla il livello di zuccheri nel sangue».

Vitamina D e coronavirus: deficit per l’80% degli italiani

Il problema è che questa essenziale sostanza ormonale risulta spesso carente. Si calcola che nel mondo ben un miliardo di persone soffra di un deficit di vitamina D. E l’Italia non fa certo eccezione, se è vero che circa l’80% delle persone presenta un’insufficienza. Accentuata soprattutto nelle donne in menopausa e negli anziani. «Il nostro è uno dei Paesi europei, assieme a Spagna e Grecia, con la maggiore prevalenza di ipovitaminosi», evidenzia Giustina. «Nelle nazioni del Nord Europa, invece, la carenza è molto inferiore. Vista anche la consuetudine di addizionare alcuni alimenti (di solito latte, formaggio, yogurt) con vitamina D».

Ebbene, sembrerà paradossale, ma la principale imputata di questo deficit è un’insufficiente esposizione solare. «In realtà, per fare il pieno di questa molecola, assicurandosi così tutti i benefici che porta con sé, basterebbe, oltre a una dieta varia ed equilibrata, esporsi al sole ogni giorno per circa 20-30 minuti, con viso, braccia e gambe scoperti», precisa lo specialista. «Una prescrizione semplice in teoria, ma più difficile in pratica. Soprattutto durante i mesi invernali e per le persone che trascorrono poco tempo all’aria aperta. Come gli anziani nelle case di riposo, o che, per motivi religiosi o culturali, devono mantenere il corpo coperto, come i preti, le suore, le donne musulmane».

Protegge dal tumore del colon-retto

Ma l’insufficiente apporto di questo ormone potrebbe anche essere causato da altri fattori. Ad esempio, una difficoltà nel suo assorbimento, determinato da alcune patologie come celiachia, diarrea cronica, morbo di Crohn, fibrosi cistica, ostruzione dei dotti biliari. O dall’assunzione di alcuni farmaci come cortisone, antiepilettici, antiretrovirali, antimicotici, colestiramina, un medicinale utile a ridurre il colesterolo. O ancora potrebbe essere provocato da una difficoltà nel convertire il precursore nella forma attiva di vitamina D a causa di disturbi dei reni o del fegato. Oppure di alcune rare malattie genetiche.

Quale che sia la causa, il dato di fatto è che, se il livello è troppo ridotto, cominciano i guai. Innanzitutto aumenta esponenzialmente la probabilità di debolezza e dolori muscolari e di fragilità delle ossa. Soprattutto di quelle di colonna, bacino, gambe, che nei casi più gravi possono provocare cadute e fratture. E se questo è il danno più noto ed evidente, è pur vero che non è il solo.

Secondo alcune ricerche la carenza dell’ormone sarebbe associata a un maggior rischio di sviluppare tumori, soprattutto a prostata, mammella, colon. In particolare, uno studio pubblicato nel 2018 sul Journal of the National Cancer Institute e condotto da un gruppo di ricercatori europei, americani e asiatici, è giunto alla conclusione che avere adeguati livelli di vitamina D nel sangue fa da scudo contro il tumore del colon-retto, uno dei più diffusi e temibili. Risultati che confermano quanto era già stato evidenziato da una ricerca pubblicata nel 2015 su Gut e realizzata dagli studiosi del Dana Farber Cancer Institute di Boston, negli Stati Uniti.

Importante anche per il benessere psichico

Ma non è tutto. Un deficit dell’ormone sembra aumentare anche il rischio di sviluppare malattie autoimmuni. Come artrite reumatoide, sclerosi multipla, lupus, morbo di Crohn, psoriasi. Lo sostiene uno studio pubblicato nel 2010 su Genome Research e realizzato da studiosi canadesi e inglesi, che hanno evidenziato un effetto diretto dell’ormone su oltre 200 geni associati proprio a tali patologie. E ancora, una quantità insufficiente di vitamina D è correlata a diverse malattie cardiovascolari. Come ipertensione, scompenso cardiaco, infarto, ictus, fibrillazione atriale, e a patologie metaboliche, a cominciare dal diabete. Uno studio pubblicato nel 2015 su Medicine e condotto dagli esperti del Centro Cardiologico Monzino di Milano, ha, infatti, riscontrato che l’80% dei pazienti colpiti da un infarto presentava un deficit, totale o parziale, di vitamina D.

A risultati simili erano giunti, negli anni precedenti, anche altre ricerche. Come quelle pubblicate su The American Journal of Cardiology nel 2010 e nel 2012, condotte rispettivamente da esperti dell’Intermountain Medical Center a Murray, nello Utah, e da ricercatori del Medical Center and Hospital del Kansas. La carenza di vitamina D rischia di compromettere anche il benessere psichico: secondo uno studio pubblicato nel 2013 sul British Journal of Psychiatry e realizzato da un gruppo di ricercatori canadesi, un deficit dell’ormone può agire peggiorando stress, ansia, sbalzi d’umore, depressione.

Sembra, infine, che tale carenza possa pure inficiare il funzionamento del sistema nervoso centrale, compromettendo la memoria e le capacità di attenzione e concentrazione. In particolare, diverse ricerche hanno evidenziato una correlazione tra un basso livello di vitamina D e un maggior rischio di declino delle funzioni cognitive, che potrebbero aprire la strada a malattie gravi e invalidanti, come l’Alzheimer e altre demenze senili.

Terapie personalizzate: integratori

Proprio per stare alla larga da tutti questi problemi è indispensabile tenere sotto controllo i livelli di vitamina D. Per quantificare questo ormone basta effettuare un semplice prelievo di sangue, con il dosaggio della 25-idrossivitamina D. Se risulta inferiore ai 20 nanogrammi per millilitro, si è di fronte a una carenza. In alcuni casi, ad esempio in presenza di osteoporosi, celiachia, assunzione di farmaci a base di cortisone, età avanzata, è opportuno che tale valore non sia più basso di 30 nanogrammi. Una volta accertato l’effettivo deficit, bisogna correre ai ripari il più in fretta possibile, somministrando la vitamina D. Nei pazienti con lievi carenze o per scongiurare un’insufficienza nelle persone a rischio, si può ricorrere agli integratori. Possono contenere al massimo 50 microgrammi di vitamina D.

«Sono disponibili in commercio in varie formulazioni. Capsule, bustine, gocce, spray. Quest’ultimo consente il migliore assorbimento, a livello sia sublinguale sia intestinale», spiega Alessandro Colletti, del dipartimento di Scienza e tecnologia del farmaco dell’Università di Torino. E segretario della Società italiana di formulazione nutraceutici (Sifnut). «Un’altra strategia per ottimizzare l’assorbimento della molecola è quella di assumere il preparato durante o subito dopo il pasto». Nel caso di carenze più consistenti, è, invece, necessario ricorrere al farmaco, che necessita della ricetta del medico di famiglia o dello specialista endocrinologo.

Terapie personalizzate: farmaci

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«Nella maggior parte dei pazienti viene prescritto l’ormone sotto forma di colecalciferolo. Ossia la sostanza che viene prodotta dalla pelle quando ci si espone al sole, che dovrà poi essere sottoposta alle sintesi nel fegato e nei reni. Proprio perché di fatto attivato dall’organismo stesso, si tratta di un prodotto ben tollerato e con pochi effetti collaterali», rileva Giustina. «Nel caso di persone affette da insufficienza epatica o renale, è, invece, necessario somministrare preparati già attivati. Come il calcifediolo, che supera la barriera del fegato, oppure il calcitriolo o il calcidiolo, che superano la barriera sia del fegato sia dei reni». Il farmaco si presenta sotto forma di soluzione oleosa in contenitori monodose. È disponibile per somministrazione orale di 25mila o 50mila unità, da assumere secondo prescrizione medica a intervalli da una a quattro settimane.

«La personalizzazione della terapia è fondamentale», sostiene l’endocrinologo. «In caso di carenza, devono essere utilizzate dosi appropriate al singolo caso. Monitorando i livelli di vitamina D durante il trattamento per evitare, da un lato, l’inefficacia della somministrazione e, dall’altro, il sovradosaggio, che si può verificare soprattutto nel caso dei preparati già attivati». L’unica controindicazione all’assunzione di questa vitamina è l’ipercalcemia. Cioè alti livelli di calcio nel sangue, che possono essere provocati da varie patologie, tra cui infezioni, infiammazioni, iperparatiroidismo. Per quanto riguarda le possibili interazioni con altri medicinali, Colletti sostiene che «l’assunzione di antiacidi contenenti sali di alluminio, di colestiramina o di orlistat potrebbe diminuire l’assorbimento della vitamina D a livello intestinale. Mentre quest’ultima potrebbe, in base a studi su animali, aumentare l’effetto anticoagulante del warfarin».

Rimborsabilità

Nel 2019 l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), l’ente che regolamenta il settore dei medicinali nel nostro Paese, ha dato un giro di vite alla rimborsabilità della vitamina D. L’ha fatto con la Nota 96, un documento che stabilisce i casi in cui il costo di un farmaco è a carico del Servizio sanitario nazionale. E i casi in cui, invece, è a carico del cittadino. Se prima del nuovo regolamento tutti i pazienti potevano procurarsi la vitamina D senza pagarla di tasca propria, in seguito, con l’intento di ottenere un risparmio per le casse del sistema pubblico, l’ormone potrà essere rimborsato solo in specifici casi.

Chi può essere rimborsato?

Avranno diritto al rimborso automatico gli anziani nelle case di riposo, le donne incinte o che allattano, le persone con osteoporosi che non assumono una terapia. Potranno essere rimborsate, ma solo dopo aver effettuato il dosaggio della vitamina D, anche le persone che manifestano i sintomi di un deficit dell’ormone. Chi ha problemi di assorbimento, soffre di ipertiroidismo, o dovrà effettuare una cura contro l’osteoporosi. «Si tratta di un provvedimento volto a diminuire la prescrizione di vitamina D», osserva perplesso l’endocrinologo Giustina. «In generale, credo che limitare la rimborsabilità di questo ormone in Italia non sia la strada migliore per affrontare il problema dell’ipovitaminosi D. Rischia di non ottenere i risultati sperati, né in termini di salute, né in termini di risparmio».

Vitamina D e bambini

La buona notizia è che la vitamina D costituisce una sorta di tesoretto per i più piccoli. Quella cattiva che un bambino su due presenta una carenza. A confermare questi dati sono gli esperti della Società italiana di pediatria (Sip). Quelli della Società italiana di pediatria preventiva e sociale (Sipps) e della Federazione italiana medici pediatri (Fimp). Di recente hanno messo nero su bianco le linee guida riguardanti la vitamina D.

Raccomandano che tutti i bimbi nel primo anno di vita ricevano un supplemento in gocce di questa vitamina. Con dosi comprese tra le 400 e le 1.000 unità internazionali al giorno. Da uno a 18 anni è consigliata l’assunzione di integratori nei casi più a rischio di deficit. Cioè i bambini di colore, poco esposti al sole, con insufficienza renale o epatite cronica, obesi, affetti da malattie infiammatorie croniche o da celiachia. In ogni caso, è da evitare il fai da te, ma occorre sempre rivolgersi al pediatra di fiducia.

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