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Mal di testa e analgesici: sicuro di non abusarne?

L'utilizzo eccessivo di farmaci contro la cefalea può generare resistenze e altri attacchi. Per uscirne ci sono le terapie disintossicanti, ma soprattutto le novità di cura con pochissimi effetti collaterali

Quando la testa inizia a pulsare, si farebbe di tutto per mandare via il dolore. E se gli attacchi sono frequenti, non ci si pensa due volte a prendere un analgesico, e poi ancora un altro. Così diventa l’abitudine e si rischia di esagerare. Dai dati dei centri specializzati per il trattamento delle cefalee, emerge che la gran parte dei pazienti con mal di testa cronico abusa degli analgesici per la terapia in acuto. La categoria di medicinali a cui si ricorre è soprattutto quella dei FANS: farmaci antinfiammatori non steroidei, dall’effetto antipiretico, analgesico, antinfiammatorio, come ibuprofene o paracetamolo. Sono medicinali da banco che i pazienti possono acquistare senza ricetta del medico.

Mal di testa e analgesici: un effetto boomerang

Tra l’altro è noto come l’eccessivo uso di medicinali per trattare il mal di testa acuto causi a sua volta un’altra forma di cefalea, chiamata “cefalea di ritorno”. È caratterizzata da una maggiore frequenza degli attacchi e da una resistenza ai farmaci.

Gruppo San Donato

Quanti giorni definiscono l’abuso di analgesici?

Si parla di utilizzo eccessivo e di cronicità, «quando i giorni in cui si tratta il mal di testa con gli analgesici sono più di quindici al mese, per tre mesi consecutivi», spiega Pierangelo Geppetti, presidente della Società Italiana per lo Studio delle Cefalee. «Oppure, nel caso dei triptani -che però devono essere prescritti dal medico- i giorni devono essere più di otto, sempre per tre mesi consecutivi».

Mal di testa e analgesici: la terapia disintossicante

L’overuse di farmaci deve essere trattato interrompendo o diminuendo l’assunzione degli analgesici in acuto e attivando la terapia di profilassi. Talvolta è «la stessa efficacia della cura prescritta dal medico a ridurre l’utilizzo di antidolorifici da parte del paziente» sottolinea Geppetti. «Altre volte non funzionerà e allora si procederà con una terapia disintossicante. Non ha criteri standardizzati, perché non sono stati condotti molti trial clinici, ma consiste in genere in una terapia endovenosa con antinfiammatori, cortisonici, tranquillanti, basati su principi d’azione diversi da quelli usati dal paziente per mandare via il dolore emicranico. Spesso questo passaggio “disintossicante” viene fatto in day hospital o ricovero ospedaliero. Un ambiente che può portare vantaggi al paziente, perché viene distaccato dai problemi della vita quotidiana, dagli stress lavorativi o familiari».

Emicrania: le cure a disposizione

Per chi soffre di emicrania ad alta frequenza ci sono diverse possibilità di cura, che si differenziano in base alla quantità di attacchi.

Analgesici e triptani

«L’emicrania che si manifesta per più di 4-fino a 15 giorni al mese si può trattare in due modi. Fino a 4 giorni si prescrive solo una terapia sintomatica, con analgesici o triptani; sopra i 4 giorni si passa invece a una terapia in profilassi con betabloccanti (farmaci di origine cardiovascolare), neuromodulatori, antidepressivi o calcioantagonisti» spiega Geppetti.

Tossina botulinica

L’emicrania che invece si manifesta per più di 15 giorni al mese per tre mesi consecutivi diventa cronica. E per questa situazione «è stata approvata qualche anno fa la somministrazione intramuscolare a piccole iniezioni multiple (circa 30) di tossina botulinica».

Anticorpi monoclonali

Le ultime novità riguardano invece le terapie a base di anticorpi monoclonali che, «stanno facendo registrare importanti miglioramenti nella pratica clinica del trattamento dell’emicrania riducendo il numero di attacchi in generale. E risultando efficaci anche nelle forme più gravi come l’emicrania cronica e quella resistente ad altri farmaci usati in precedenza. Questi progressi sono stati possibili grazie alla scoperta del meccanismo da cui si genera il dolore emicranico» sottolinea il presidente SISC.

Il loro punto di forza sono gli scarsissimi effetti collaterali. «Hanno un ottimo profilo di sicurezza: negli studi clinici i loro effetti collaterali sono stati sovrapponibili a quelli prodotti dal placebo e nella pratica clinica sono molto ben tollerati». Il profilo di sicurezza è importante, soprattutto se si pensa che la maggior parte dei pazienti sono donne intorno ai 40-50 anni. Molti farmaci hanno un effetto collaterale su peso, umore, cuore, pressione, difficili da tollerare per mesi o addirittura anni.

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