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Sanità: idee e protagonisti per il cambiamento

Che cosa ci ha insegnato questa pandemia? Quali sono le svolte necessarie affinché la nostra salute venga tutelata meglio? SIMA e OK lo hanno chiesto a grandi esperti tra scienza e politica

La salute è un bene essenziale per lo sviluppo sociale, economico e personale, ed è aspetto fondamentale della qualità della vita. «La stretta correlazione tra ambiente e salute», spiega Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), «deve essere letta sia in chiave antropocentrica (prevenzione dell’impatto dei determinanti ambientali sulla salute umana) che ecosistemica (ricreare un ambiente che abbia caratteristiche tali da porsi a supporto della salute). Una visione olistica dunque che ingloba sempre di più gli aspetti economici e giuridici in un approccio multidisciplinare in cui anche lo sviluppo tecnologico può rappresentare una dimensione strategica per una sostenibilità produttiva e sociale del prossimo futuro, con ricadute tangibili sulla salute pubblica, la qualità della vita, la tutela ambientale». SIMA e OK hanno chiesto a sette grandi esperti tra scienza e politica come dovrà essere ridisegnato il mondo della sanità del dopo-pandemia.

Una ricerca sanitaria che riduca anche il divario Nord-Sud

Uricchio
Antonio Felice Uricchio, presidente Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) e presidente Comitato Scientifico SIMA

La ricerca pubblica in Italia produce risultati significativi in rapporto all’esiguità delle risorse impegnate: la produttività dei singoli ricercatori è, infatti, particolarmente alta – siamo quarti in Europa – ma il loro numero è piuttosto ridotto e lo stanziamento complessivo in favore di questo comparto ci vede penultimi nell’Unione Europea. In materia sanitaria la ricerca si sviluppa attraverso le sedi accademiche che hanno corsi di studio in medicina, biotecnologie e veterinaria, gli istituti di ricerca a carattere scientifico e alcune istituzioni private, fondazioni legate anche al mondo assistenziale, e in parte presso le strutture ospedaliere.

Gruppo San Donato

Istituzioni che, a livello complessivo, vedono una più alta concentrazione nelle aree del centro-nord del Paese, sia per una tradizione accademica consolidatasi negli anni sia per la possibilità di attingere anche a risorse private, ma anche a causa di fattori di squilibrio economico-sociale che gravano sul finanziamento complessivo della sanità e della ricerca. Alcune aree presentano, in effetti, note criticità che, peraltro, dipendono anche da gestioni non sempre accurate della sanità pubblica.

Tuttavia l’attuale pandemia ci mette nelle condizioni di dover porre mano a tale settore della ricerca con una particolare urgenza e l’esigenza d’invertire i flussi tra una parte e l’altra dell’Italia, anche con riferimento alla mobilità dei malati che da Sud vanno a farsi curare al Nord, è fortemente avvertita, in quanto determina squilibri e conseguenze pure sotto il profilo economico-finanziario. Mi pare, quindi, sia stata compresa la necessità di destinare anche alla ricerca sanitaria fondi perequativi, cioè lo strumento che mira a mitigare le diseguaglianze tra regioni i cui abitanti hanno una differente capacità fiscale, al fine di garantire gli stessi standard di prestazione nell’erogazione dei servizi. A tal fine potrebbe anche essere colta l’opportunità rappresentata dalle stesse risorse del Recovery Fund.

Andrebbe, inoltre, ripensato il riparto di competenze tra Stato e Regione, che proprio durante l’emergenza in corso del Covid-19 ha fatto emergere molte criticità: considerata la stretta compenetrazione tra ricerca e assistenza sanitaria, le linee d’indirizzo di carattere generale devono essere affidate alla regia del Governo centrale, anche nell’ottica di superare gli squilibri territoriali. Da parte nostra, come Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR, l’ente pubblico che assicura la qualità del sistema dell’istruzione superiore e della ricerca nazionale), negli ultimi mesi abbiamo da un lato avviato e accreditato in tutto il Paese ben nove nuove sedi di medicina, che potranno accogliere oltre un migliaio di studenti in più rispetto all’anno precedente, e dall’altro, assieme ai ministeri della Salute e dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dato il via a un programma di valutazione della ricerca scientifica, determinante per guidare le scelte d’investimento pubblico.

Certo, il percorso da compiere è ancora lungo, soprattutto se vogliamo restare al passo con le istituzioni europee. Occorre avviare politiche pubbliche che partano dalla formazione e investano nella ricerca e, in un arco di tempo minimo che va dai cinque ai dieci anni, la catena integrata tra ricerca e assistenza produrrà i suoi benefici effetti. Io resto fiducioso proprio per la nuova sensibilità creata in questa fase storica dalla pandemia.

Regole condivise a livello Ue e Oms meno politicizzata

Miccoli
Paolo Miccoli, professore ordinario a riposo di Chirurgia Generale all’Università di Pisa, membro del Comitato Scientifico SIMA e già presidente ANVUR

Il giudizio sul modo disunitario con il quale Bruxelles ha affrontato la pandemia di Covid-19 non può che essere negativo. In uno spazio aperto come l’Unione Europea, privo di frontiere e con la libera circolazione di uomini e merci, era impensabile fronteggiare un’emergenza come questa senza almeno alcuni principi fondamentali unitari; invece, non ha funzionato il lavoro di cooperazione e coordinamento. Per non incorrere negli errori del recente passato, ritengo, quindi, che sia necessario rivalutare al massimo il ruolo dell’EMA, l’ente centralizzato di sorveglianza del farmaco, e soprattutto pensare a una seria campagna vaccinale a livello di Unione con regole condivise, a partire dall’acquisto e dalla distribuzione dello stesso vaccino.

Campagna vaccinale comune che, tra l’altro, rappresenterebbe un’ottima cartina di tornasole per costatare quanto le politiche sanitarie europee possano essere omogeneizzate, dando la possibilità non solo ai medici di lavorare allo stesso modo in tutta l’UE ma anche ai pazienti di avere accesso ovunque alla cure con la stessa qualità terapeutica. Inoltre, bisognerà valutare, con la ripresa dei movimenti tra i vari Paesi, l’istituzione di una sorta di patentino per dimostrare l’immunità o se si è vaccinati. Sempre a livello europeo, un modello virtuoso in questa crisi è, comunque, stato rappresentato dalla Germania, il cui sistema sanitario può contare su forti investimenti che gli garantiscono una grande ricchezza di mezzi e uomini e, rispetto all’Italia, è più stabile, cioè può avvalersi di un notevole numero di posti letto in terapia intensiva (34 ogni 100mila abitanti contro gli otto del nostro Paese). Eppure la sofferenza delle nostre terapie intensive risale a ben prima dell’arrivo del nuovo coronavirus ed era stato segnalato dai nostri medici molto tempo prima dell’attuale emergenza. patentino covidNon solo.

I tedeschi dispongono anche di una capillare medicina territoriale, che in Italia è praticamente scomparsa. Allungando lo sguardo al resto del mondo, sono da segnalare gli interventi governativi estremamente efficaci in alcuni Paesi orientali come Taiwan (la cui situazione ben conosco in quanto direttore onorario di un locale centro per lo studio del cancro alla tiroide) e Corea del Sud. Entrambi sono state favoriti sia dal fatto che non si sono fatti trovare impreparati grazie all’esperienza passata nell’affrontare la SARS (dall’altissimo tasso di mortalità), che li ha indotti a creare strumenti di difesa e lockdown più elastici, sia dal loro livello elevato di cultura informatica.

Mentre da noi l’app Immuni è stata un insuccesso, i due Paesi asiatici hanno dimostrato che i sistemi di tracciamento funzionano molto bene quando sono supportati da un’alfabetizzazione informatica diffusa e da una tecnologia sofisticata. Per quel che riguarda, infine, l’istituzione che si occupa di salute a livello globale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’auspicio è che nel prossimo futuro sia meno politicizzata, in quanto oggi per molti versi ripete le storture dell’ONU, con atteggiamenti dettati dalla politica. Per affrontare catastrofi come questa del Covid-19 abbiamo bisogno di un’OMS dalla struttura più agile, per interventi più rapidi, e soprattutto maggiormente accentrata su un atteggiamento scientifico. Insomma, bisogna ridare la parola agli scienziati.

Infrastrutture, personale, governance e prevenzione: i 4 pilastri della nuova sanità

Castellone
Maria Domenica Castellone, ricercatrice dell’Istituto di Endocrinologia ed Oncologia Sperimentale (IEOS) del CNR di Napoli, vicepresidente del Gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle al Senato e membro della 12esima Commissione Permanente (Igiene e Sanità)

Questo deve essere il momento delle scelte coraggiose, perché dobbiamo usare l’esperienza tragica che stiamo vivendo come un’opportunità di cambiamento per invertire la rotta di quella che è stata finora la visione della sanità. Negli ultimi dieci anni sono stati tagliati 37 miliardi di fondi alla sanità pubblica, con 71mila posti letto persi e 46mila tra medici e infermieri che hanno lasciato il settore pubblico per andare a lavorare nella sanità privata. Oggi stiamo assistendo a una netta inversione di tendenza, ma è fondamentale una programmazione all’altezza della sfida che ci aspetta. In questi mesi, con i provvedimenti governativi passati attraverso il Parlamento, abbiamo portato avanti quattro temi, i pilastri sui quali avevamo lavorato come proposte di legge già prima della pandemia.

Primo: potenziare le infrastrutture, per le quali sia nella scorsa legge di bilancio che in questa sono stati stanziati due miliardi di euro. Gli interventi devono riguardare non solo l’edilizia sanitaria, ma anche un ammodernamento tecnologico attraverso una sempre maggiore digitalizzazione: telemedicina, cartella clinica elettronica, fascicolo sanitario elettronico. Vanno, poi, mantenute best practices adottate in questa emergenza, come la ricetta dematerializzata, inviata direttamente in farmacia dal medico di medicina.

Secondo: investire sul personale sanitario. Con il decreto Calabria abbiamo tolto il blocco delle assunzioni in sanità anche per le regioni in Piano di rientro e ci batteremo per la stabilizzazione dei precari. Questo permetterà di rivedere il modello della nostra medicina territoriale, così da attivare su tutto il territorio nazionale quelle reti di cure primarie (le case della salute) e intermedie (gli ospedali di comunità) previste dal decreto ministeriale 2 aprile 2015 n. 70 e finora realtà solo in alcune regioni virtuose, come l’Emilia Romagna, non a caso quelle che hanno gestito meglio la pandemia. Occorre, inoltre, una formazione sanitaria e manageriale sempre più di qualità: le nostre proposte di legge prevedono la revisione dell’intero percorso pre e soprattutto post laurea dei medici, in cui anche la medicina generale diventi specialistica, e corsi di management sanitario gestiti a livello centrale e non più regionale.

Terzo: mettere mano a una revisione generale della governance della sanità per garantire a tutti i cittadini un uguale accesso alle cure. Occorre puntare sui servizi di prossimità per le prestazioni sanitarie minime, riservando gli ospedali solo alle malattie in fase acuta, con la sanità privata sempre più integrativa di quella pubblica e non una sua sostituta. Serve, poi, un coordinamento maggiore tra Stato e Regioni per far sì che le norme approvate dal Governo centrale vengano attuate a livello locale in tempi rapidi e senza cortocircuiti. Così come vanno ricalibrate le politiche della farmaceutica, in modo da conciliare l’aumento dei costi soprattutto dei farmaci innovativi con la loro sostenibilità da parte del Sistema sanitario nazionale. Penso a metodi di contrattazione del farmaco sempre più innovativi, tipo i payment by results («vi pago solo se il trattamento è efficace»), ma anche ai vantaggi di un’appropriatezza sempre maggiore della terapia attraverso la diagnosi personalizzata. In particolare servirebbe un fondo dedicato alla diagnostica innovativa – quella genomica o in generale di precisione – attualmente rimborsata solo in alcune regioni, non essendo inclusa nei Livelli Essenziali d’Assistenza (LEA).

Quarto: potenziare la prevenzione sia primaria, con una sempre maggiore diffusione di modelli virtuosi negli stili di vita a partire dal campo alimentare, sia secondaria, con adesione agli screening purtroppo ancora troppo bassa in Italia. La legge sulla Rete nazionale dei registri dei tumori e dei sistemi di sorveglianza e del referto epidemiologico per il controllo sanitario della popolazione, per la quale siamo ancora in attesa dei decreti attuativi (anche se il ministero della Salute assicura di essere al lavoro per emanarli quanto prima), sarebbe uno strumento utile non solo nell’ottica di avere una fotografia dell’incidenza e della diffusione delle patologie oncologiche sul territorio italiano, ma anche per capire di quali patologie ci si ammala e si muore maggiormente nelle varie zone così da mettere, poi, in atto metodiche specifiche di screening.

Dalla telemedicina alla telesorveglianza, il farmacista sempre più sussidiario del medico

Mandelli
Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani, deputato e responsabile nazionale del Dipartimento Sanità di Forza Italia

È sotto gli occhi dell’intera opinione pubblica ed è stato riconosciuto a ogni livello il ruolo fondamentale di presidio territoriale che le farmacie, con i loro 60mila farmacisti tra titolari e collaboratori, hanno svolto e stanno svolgendo nella pandemia in corso, ove sono emersi i maggiori problemi del sistema sanitario proprio sull’assistenza nel territorio al cittadino. Basti pensare all’autoproduzione del gel per igienizzare le mani quando ve ne era carenza nei primissimi giorni di emergenza, così da renderlo disponibile a tutti e calmierarne i prezzi; all’agevolazione dell’accesso a un farmaco salvavita come l’ossigeno terapeutico o al grande lavoro per la tramutazione dei codici NRE, i numeri seriali delle ricette dematerializzate che i medici di base mandavano sugli smartphone dei pazienti, così da evitare code e assembramenti negli ambulatori. I nostri professionisti sono stati un vero punto di riferimento territoriale per i cittadini, dispensando farmaci ma anche consigli e prima assistenza nei casi in cui il medico curante non era immediatamente disponibile. Le nostre insegne – le croce verdi – sono sempre rimaste accese durante il lockdown, a Pasqua così come il 25 Aprile.

E, se un grazie enorme va ai farmacisti del territorio, uno altrettanto grande è dovuto anche a quelli che hanno lavorato negli ospedali fianco a fianco con medici, anestesisti, rianimatori. Eppure avremmo potuto fare di più se solo potessimo avere una collaborazione più stretta con i medici. Purtroppo la legge sulla Farmacia dei Servizi è rimasta al palo, poiché la pandemia ne ha bloccato la sperimentazione su tutto il territorio nazionale prevista proprio nel 2020.

Ma immaginatevi i vantaggi se il telemedicinafarmacista avesse già potuto assumere la nuova funzione che tale legge prevede all’interno di un presidio polifunzionale qual è la farmacia, dalla telemedicina alla presa in carico dei pazienti per migliorarne l’aderenza terapeutica (è noto l’allarme dei medici anche oncologi sul fatto che i pazienti hanno avuto molte difficoltà ad avere screening e visita di controllo). Una Farmacia dei Servizi che avremmo potuto implementare prevedendo anche un servizio di telesorveglianza che metta il farmacista in contatto con il paziente in quarantena. Per fare presto e bene, due avverbi che non vanno mai d’accordo, è, inoltre, necessario avere l’umiltà di guardare ai modelli che funzionano adottati da altri Paesi del nostro continente, come Francia, Germania, Gran Bretagna, Portogallo, Paesi Bassi e Svizzera, i quali hanno chiesto ai loro farmacisti di diventare vaccinatori per l’influenza.

Ferma restando la titolarità del medico nella diagnosi e nella prescrizione, è più facile e veloce andare a vaccinarsi in farmacia che in ambulatorio medico. Insomma, il farmacista deve essere messo al centro di una ristrutturazione del Servizio sanitario nazionale che metta fine alla stagione dei tagli con un ruolo che lo veda non «medico bonsai» ma partner del medico. E pensiamo anche alla dispensazione dei farmaci negli ospedali: durante la pandemia pochi pazienti sono andati a prenderli. Perché non trovare una soluzione che, pur salvaguardando il risparmio economico del Ssn, consenta all’anziano o al malato di poterli ritirare nella farmacia sotto casa? Noi farmacisti siamo pronti alla sfida.

Il diabete avanza: per contrastarlo servono pazienti consapevoli

Lauro
Renato Lauro, presidente Italian Barometer Diabetes Observatory Foundation (IBDO), rettore emerito dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e membro del Comitato Scientifico di SIMA

Ben 415 milioni di malati nel mondo nel 2017, in pratica un adulto su 11, che, secondo le stime dalla World Diabetes Federation, saliranno a 642 milioni nel 2040. Il diabete, una patologia dalle comorbilità gravi quali l’ipertensione arteriosa, l’infarto e l’ictus, è l’esempio più importante di una serie di disturbi che sta aumentando progressivamente in tutto il mondo e ha effetti devastanti sulla vita sia privata sia lavorativa, fino a incidere anche sul Pil delle varie nazioni: le malattie croniche non contagiose.

A parte le condizioni di carattere genetico che influiscono sulla funzionalità del sistema metabolico, a costituire i due maggiori fattori di rischio diabetico sono l’obesità e la sedentarietà, cioè due grandi mali della società contemporanea. Forte è, infatti, la correlazione tra stili di vita e diabete, con quest’ultimo che si sta caratterizzando come malattia urbana, di quelle grandi città nelle quali il 70% della popolazione mondiale è orientata a vivere e dove la scarsa attività fisica, l’alimentazione scorretta e il basso stato socioeconomico costituiscono importanti fattori di vulnerabilità. La parola chiave per contrastare il diabete è, allora, prevenzione.

La maggior parte delle condizioni che determinano i fattori di rischio, a partire proprio da obesità e sedentarietà, si possono modificare se si affrontano in tempo e se il paziente è ben istruito dal medico su quello che ha e su quello che gli può succedere. Conoscenze che, per sortire un effetto positivo, devono venire inculcate soprattutto nei giovani, prima che la malattia prenda campo, perché noi uomini siamo animali abitudinari ai quali non è per nulla facile far cambiare lo stile di vita. Penso a un paziente che, venuto da me già in stato diabetico avanzato, alle mie prescrizioni replicò con un arguto aforisma: «Non ho alcuna intenzione di vivere da malato per morire sano». Per evitare in futuro risposte simili bisogna, perciò, sviluppare quello che gli anglosassoni chiamano empowerment del paziente, con quest’ultimo che deve essere perfettamente consapevole delle possibili conseguenze del diabete in un quadro di suo maggior coinvolgimento nel processo di cura.

Perché l’evoluzione della patologia è completamente diversa tra chi segue le regole comportamentali, dettate dalle tante informazioni che ci fornisce la ricerca biomedica, e chi no. Il contrasto al diabete, inoltre, implica un cambiamento radicale dell’attività sanitaria e soprattutto di quella del medico. In questo caso non è sufficiente un’attività diagnostica iniziale seguita dalle cure, ma occorre seguire, attraverso un’osservazione frequente, l’andamento della malattia, che è multifattoriale, con danni che possono intervenire, per esempio, a livello del cuore, dei reni o degli occhi. Inoltre, le terapie e le valutazioni cliniche devono essere integrate: non è sufficiente basarsi solo sulla glicemia e sugli altri valori che riguardano il metabolismo, ma, proprio per le comorbilità che il diabete comporta, occorrono competenze mediche diverse per la messa a punto di un trattamento che affronti contemporaneamente più aspetti.

Lo studio del microbiota darà vita a cure personalizzate

Merra
Giuseppe Merra, professore di Scienze e tecniche dietetiche applicate presso la facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Roma Tor Vergata, professore di gastroenterologia presso la Scuola di specializzazione in malattie infettive e tropicali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e membro del Comitato Scientifico di SIMA

Lo studio del microbiota è una scienza recente che sta letteralmente rivoluzionando il modo di rapportarsi ad alcune importanti patologie (da qui la definizione di Microbiota Revolution), aprendo le porte in un futuro prossimo ad approcci gastroenterologici e nutrizionali che daranno vita a una medicina di precisione: la personalizzazione di prevenzione, diagnosi e cure in base al singolo paziente. Per microbiota s’intende la popolazione numerosa e diversificata di batteri, virus e funghi (microflora) residenti nelle parti del corpo esposte all’esterno – cute, naso, bocca e, soprattutto, intestino – che si costituisce al momento della nascita dell’essere umano attraverso un processo di colonizzazione dipendente da fattori genetici, tipologia del parto (naturale o cesareo), microflora materna e modalità di allattamento e che, successivamente, viene influenzato da età, genere, abitudini alimentari, utilizzo di farmaci (soprattutto antibiotici) e ambiente in cui si vive.

Tuttavia non tutti i batteri della nostra microflora hanno azioni benefiche, alcuni producono metaboliti tossici cancerogeni che la mucosa intestinale ha il compito di riconoscere e fermare. Impermeabilità che, se viene meno, porta alla crescita di batteri «cattivi» all’interno dell’intestino (disbiosi) e, quindi, alla comparsa di uno stato infiammatorio capace di alterare il normale processo fisiologico di assorbimento con conseguente perdita di microelementi importanti (sindrome dell’intestino permeabile). Questa alterazione del microbiota intestinale è ormai correlata senza ombra di dubbio alla celiachia e ad altre forme di malassorbimento, alle allergie alimentari, alle malattie infiammatorie, alla sindrome del colon irritabile e alla tendenza all’obesità, mentre diversi recenti studi recenti la collegano anche alla comparsa di autismo e Parkinson.

Se, pertanto, riuscissimo a individuare le sequenze geniche delle popolazioni microbiche che colonizzano il nostro tratto digerente, la nuova frontiera potrebbe essere, appunto, sia una medicina sia una nutrizione di precisione che ci permetteranno di modificare il microbiota. Certo, questo probabilmente non riuscirà a soppiantare l’utilizzo di terapie specifiche nella cura delle malattie, ma darà un grande contributo a risolvere diverse situazioni. Per esempio, già oggi il trapianto del microbiota intestinale (trapianto fecale) è riconosciuto come unica terapia standardizzata, con un tasso di efficacia di oltre il 95%, per infezioni recidivanti da Clostridium difficile, batterio che causa una grave patologia a livello intestinale. Chissà che un giorno la medicina di precisione non ci permetta di utilizzare tale intervento anche per altre malattie. Gli studi sono in corso.

Riscaldamento, trasporto e agrozootecnia: abbattere l’inquinamento in tre mosse

Zolezzi
Alberto Zolezzi, medico pneumologo, deputato del Movimento 5 Stelle e membro dell’VIII Commissione (Ambiente, Territorio e Lavori pubblici) e della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali a esse correlati

L’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, il cibo di cui ci nutriamo, il suolo che calpestiamo: l’ambiente che ci circonda è quello che ci compone e, quindi, è un determinante della nostra salute sia nel breve che nel lungo termine. Lo vediamo con l’inquinamento atmosferico, con circa 400mila decessi annui nell’Unione Europea collegati alle polveri sottili (e non a caso nelle zone con più alta concentrazione di PM 2.5 si sono registrati contagi più numerosi e casi più gravi di coronavirus). Lo stesso vale per l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici e pesticidi, che, poi, entrano nel nostro organismo attraverso gli alimenti. Vivere sani in un mondo malato non è assolutamente facile e non si può certo pensare di ricorrere sempre a medicine per curare gli effetti delle sostanze che ci avvelenano.

Ecco, allora, l’importanza della prevenzione, a definire la quale a livello territoriale darà un grande supporto la legge sulla Rete nazionale dei registri dei tumori e dei sistemi di sorveglianza e del referto epidemiologico per il controllo sanitario della popolazione, di cui ha parlato nel suo intervento la senatrice Maria Domenica Castellone. Contemporaneamente va stimolata la Commissione Europea affinché abbassi la soglia delle concentrazioni medie annue di PM 2.5 da 25 a 10 microgrammi per metro cubo, allineandosi così alle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS). Per arrivare a tale quota è necessario intervenire sul riscaldamento e raffrescamento di edifici civili, sui trasporti e sugli allevamenti intensivi: per fare l’esempio della Pianura Padana, ai tre citati ambiti di deve rispettivamente il 17%, il 34% (il 21% dei trasporti merci più il 13% privati) e il 19% del particolato che respiriamo. Emerge, così, da questi dati l’importanza del superbonus al 110% varato dal Governo per l’efficienza energetica degli edifici. Per una mobilità sostenibile, invece, bisogna puntare su trasporti pubblici e ferroviari e sui veicoli elettrici, oltre a rendere strutturale lo smart working: il lavoro che si può fare da casa deve essere fatto da casa.

Occorre, poi, finanziare agrozootecniaun’agrozootecnia che si sposti verso aziende più piccole e sostenibili, dove vi è maggiore sicurezza e benessere animale. Ricordo, a tal proposito, che l’inquinamento rappresenta anche un danno dal punto di vista economico, causando un dispendio annuo stimato pari a poco meno di 50 miliardi di euro. Infine bisogna mettere un freno anche alla produzione di certi composti chimici dei quali oggi abbiamo alternative, come le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS), usate per decenni come impermeabilizzanti, antimacchia e antiaderenti; la scienza ha dimostrato non solo che queste sostanze sono cancerogene, interferiscono con il sistema endocrino, causano infertilità e preeclampsia, ma anche riducono la risposta immunitaria, cioè ai vaccini. Ebbene, ora se ne vuole addirittura aumentare la produzione nel polo chimico di Alessandria, con il rischio di contaminare, attraverso i fiumi Bormida e Tanaro, il bacino del Po. Un problema che riguarda 20 milioni di persone.

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