Salute

Melanoma: come riconoscerlo e come curarsi

Ben il 98% dei tumori diagnosticati in fase uno va incontro a guarigione. Ma il melanoma si batte giocando d'anticipo

Immaginate di essere su una spiaggia tra una decina di anni e, oltre ai soliti bikini e costumi, vedere persone che indossano magliette ad hoc per proteggersi dal sole. Con l’obbligo, per i più giovani, fino ai 18 anni. Alcuni esperti ipotizzano che in futuro, un po’ com’è stato fatto con il fumo, leggi dello Stato interverranno per tutelare la salute pubblica e cercare di prevenire l’insorgenza del melanoma nella popolazione.

Una neoplasia che, secondo un’indagine del 2016, solo due italiani su dieci dichiarano di conoscere. Eppure non è rara. Stando ai numeri raccolti della Lilt, la Lega italiana per lotta contro i tumori nel 2019 sono stati accertati 13mila casi, con un’incidenza aumentata del 4% rispetto all’anno precedente. Si parla di circa 10-20 casi su 100mila abitanti e una buona fetta (il 20%) viene diagnosticato tra i 15 e i 39 anni. Il 20% delle nuove diagnosi registrate in Italia nel 2019 ha riguardato persone sotto i 40 anni. Il dito è puntato contro le cattive abitudini, come l’esposizione alle radiazioni ultraviolette naturali del sole e quelle artificiali delle lampade, i cui rischi sono ancora troppo sottovalutati. In generale, il melanoma è la seconda neoplasia più ricorrente tra gli uomini giovani (dopo il tumore al testicolo) e la terza tra le donne (seno e tiroide le prime).

Gruppo San Donato

Melanoma: fattori di rischio

Il principale fattore di rischio per il melanoma cutaneo è l’esposizione scorretta ed eccessiva ai raggi ultravioletti, veicolati soprattutto dal sole. Prendere il sole fa bene alle ossa, ma a lungo può danneggiare il DNA delle cellule della pelle. E innescare la trasformazione tumorale.

Altri fattori di rischio noti sono l’insufficienza del sistema immunitario (causata, per esempio, da precedenti chemioterapie o trapianti) e alcune malattie ereditarie. Il rischio aumenta anche nelle persone con lentiggini o con tanti nei, in quelle con un fototipo chiaro e in quelle che hanno familiarità, quindi un parente stretto colpito da melanoma.

Esistono quattro tipologie di melanoma

Usare il termine «tumore della pelle» come sinonimo di «melanoma» non è del tutto corretto. Il primo nasce dalle cellule che formano la cute, i cheratinociti (e si differenzia in carcinoma squamocellulare o basocellulare). Il secondo invece si forma dai melanociti, cellule con il compito di produrre melanina, la sostanza che ci ripara dal sole scurendoci la pelle quando ci abbronziamo. «Il melanoma è una patologia tumorale piuttosto severa che non si mantiene quasi mai al livello superficiale dell’epidermide. Si infiltra nell’organismo generando metastasi negli altri organi», sottolinea Francesco Schittulli, presidente Lilt. Da un punto di vista clinico, si distinguono quattro tipi di melanoma: a diffusione superficiale (il più comune), lentigo maligna, lentigginoso acrale e nodulare (il più aggressivo).

Quando si parla di cause bisogna necessariamente considerare lo stile di vita. Perché «una familiarità vera e propria non esiste, anche se aver avuto dei casi in famiglia rende soggetti a rischio», precisa l’oncologo. Per questo, la maggior incidenza tra gli uomini si spiega con alcuni lavori e abitudini più tipicamente maschili: pensiamo a muratori, agricoltori, contadini sempre esposti al sole, alla poca – o nulla – abitudine all’utilizzo di creme protettive e al vizio del fumo. Tuttavia, «la differenza nella diffusione del melanoma tra uomo e donna non è così ampia», chiarisce Schittulli. «Perché l’attitudine all’abbronzatura è tipicamente femminile ed è qui che si commettono gli errori più grandi».

I danni dei raggi solari

Il colorito estivo che in tanti amano perché sinonimo di vacanza non è altro che un meccanismo di difesa innescato dalla pelle per evitare problemi. «Vivere costantemente sulla difensiva è logorante. Perciò meno stimoliamo la cute a proteggersi, meglio è», avverte Agostino Crupi, dermatologo dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis di Milano. «I sistemi di difesa della cute sono più o meno efficaci in base al fototipo di una persona. Cioè in base al colore della sua pelle. Chi è chiaro o molto chiaro, quindi fototipo 1, 2 e 3, corre un alto rischio di scottature. Chi è scuro o nero, fototipo 4, 5 e 6, molto meno».

Nella prevenzione primaria del melanoma il ruolo più importante lo gioca il modo in cui ci proteggiamo dai raggi UVA e UVB del sole. «I primi, la maggior parte di quelli che arrivano sulla Terra, oltrepassano nuvole, vetri, schermature. Non stimolano l’abbronzatura ma raggiungono il derma in profondità, ossidando le cellule e causando l’invecchiamento cutaneo», spiega il dermatologo. «I più dannosi per la salute, però, sono i raggi UVB. Ne arrivano meno perché sono schermati da nuvole e vetri, ma sono la causa delle scottature, delle ustioni solari e di conseguenza dei tumori della pelle. Compreso il melanoma, perché creano un danno al Dna cellulare». Oltrepassando qualsiasi barriera, i raggi UVA sono sempre presenti, anche quando è nuvoloso e piove, mentre gli UVB colpiscono solo nelle giornate soleggiate, raggiungendo la loro aggressività maggiore dalle 10.30-11 della mattina fino alle 16.

Melanoma: prevenzione

Creme protettive, schermature fisiche nelle ore più calde della giornata (T-shirt, cappellino e occhiali, soprattutto nei più piccoli) e ridotta esposizione al sole (in particolare i fototipi più chiari) sono gli efficaci strumenti che abbiamo a disposizione per prevenire l’insorgenza del melanoma. Peccato che ben il 40% dei giovani ammetta di non utilizzare creme solari (dati Lilt). «I fototipi più chiari non dovrebbero mai scendere sotto un fattore di protezione (Spf) 50+, o addirittura 100, anche dopo i primi giorni di abbronzatura, quando erroneamente si passa a un prodotto meno protettivo», sottolinea Crupi. «I fototipi più scuri, invece, possono utilizzare anche creme con Spf 30 o 20». Per preparare la pelle all’esposizione solare estiva, il dermatologo consiglia anche l’assunzione di integratori alimentari, da maggio fino a settembre. «A base di vitamine C, A, D ed estratti antiossidanti naturali, come il polypodium». Per approfondire: leggi l’articolo su come prevenire il melanoma. 

Melanoma: no alle lampade solari

Se con le dovute precauzioni il sole si può prendere, le lampade abbronzanti vanno invece del tutto dimenticate. Prima che gli esperti condannassero lettini e docce a raggi ultravioletti, per anni le persone sono state convinte che aiutassero a prevenire le scottature solari, ad alleviare la depressione stagionale (ma quelle sono lampade che si utilizzano sotto controllo medico) e ad alimentare la produzione di vitamina D. Niente di tutto ciò è vero. Anzi: secondo l’Organizzazione mondiale della sanità basta essersi sottoposti ad almeno una lampada nella vita per avere il 20% di rischio di melanoma in più rispetto a chi non ne ha mai fatte.

E la percentuale aumenta se si è fatta prima dei 35 anni. In Italia le lampade abbronzanti sono vietate ai minori di 18 anni dal 2011, ma nel 2016 ancora il 7% degli adolescenti continuava a farle. Eloquente una stima tratta da un articolo pubblicato su Jama Dermatology: se in Nord America e in Europa venissero vietate le apparecchiature abbronzanti, nella prossima generazione di giovani sotto i 35 anni si eviterebbero circa 448mila casi di melanoma e 9,7 milioni di casi di altri tipi di tumore.

Melanoma: autoanalisi con la regola ABCDE

Proteggere quindi, ma anche controllare. «Ognuno di noi dovrebbe sottoporsi ogni anno a una visita dal dermatologo per il controllo dei nei», riprende Schittulli. «Solo così si può notare se un neo muta nel tempo e determina la comparsa di un melanoma. Lilt ha circa 400 ambulatori distribuiti sul territorio nazionale, a cui si può accedere per visite dermatoscopiche per la mappatura dei nei».

Fondamentale anche l’autoanalisi. Gli esperti la consigliano ogni due mesi circa, per notare eventuali mutazioni secondo le variabili ABCDE. «A sta per asimmetria: preoccupiamoci se un neo cambia forma o diventa irregolare», spiega l’oncologo. «B per bordi, che sospetti se appaiono sfrangiati o irregolari. C sta per colore, non va bene se il neo lo cambia o se diventa più scuro. D sono le dimensioni, di solito preoccupanti se superano i 6 millimetri. E è l’evoluzione: se il neo cambia tanto e progressivamente nel corso dei mesi, non è un buon segno». Per approfondire: scopri come controllarti da solo i nei. 

Melanoma: diagnosi

mappatura-nei

In modo analogo, la mappatura che si esegue dal dermatologo è necessaria per confrontare nel tempo la pelle, evidenziando la comparsa di nuovi nei o la modificazione di quelli già esistenti. Gli specialisti fanno prima di tutto una visita completa, nella quale valutano la storia familiare e la presenza di segni e sintomi tipici del melanoma cutaneo. C’è poi l’esame della pelle tramite l’uso dell’epiluminescenza, una speciale tecnica di ingrandimento e illuminazione della pelle.

«Si esegue con apparecchiature fotografiche dotate di dermatoscopi (microscopi per la cute) che permettono di scattare una serie di fotografie cliniche al corpo del paziente», spiega Crupi. «Le zone che presentano lesioni neviche melanocitarie particolarmente degne di nota sono quelle che archiviamo in epiluminescenza o dermoscopia. Cioè “immagini” che ci permettono di valutare al microscopio sia la morfologia sia la disposizione di addensamenti di pigmento melanico di vasi o capillari sanguigni in quel punto della pelle. Saranno fatti poi controlli nel tempo per valutare il dinamismo melanocitario, cioè l’evoluzione o l’involuzione dei nei».

La diagnosi certa di melanoma richiede una biopsia, in cui un campione di tessuto viene prelevato e poi analizzato al microscopio. Grazie a specifiche analisi sul campione di tessuto oggi è possibile identificare la presenza di mutazioni molecolari tipiche di alcune forme di melanoma cutaneo, fondamentali per individuare la terapia più adatta. Esami di diagnostica per immagini come radiografia del torace, TAC, PET e risonanza magnetica sono invece utili per capire se e dove la patologia si è allargata.

Classificazione

I melanomi vengono classificati in quattro stadi, da I a IV. Sono definiti attraverso il sistema TNM, che si basa su caratteristiche come lo spessore, la velocità di replicazione delle cellule tumorali, la presenza di ulcerazioni (T), il coinvolgimento dei linfonodi (N) e la presenza di eventuali metastasi (M).

Come si cura il melanoma

Il trattamento del melanoma varia in base allo stadio di malattia, all’età e allo stato di salute del paziente colpito dalla malattia. Ma quali sono le possibili terapie? Ce lo spiega Mario Santinami, direttore S.C. chirurgia generale indirizzo oncologico dell’Istituto dei Tumori di Milano.

Target therapy e immunoterapia

Le percentuali di sopravvivenza dopo la diagnosi di un melanoma in stadio precoce sono incoraggianti. La chirurgia costituisce il trattamento standard ed è associata a un’ottima prognosi. La sopravvivenza a cinque anni è del 98% nei pazienti in stadio I e del 90% in quelli in stadio II, quando il tumore è esteso non più di qualche millimetro in profondità. Gli scenari sono diversi per i pazienti con melanoma in fasi più avanzate, già esteso ai linfonodi locoregionali, ma anche in questo caso la medicina sta facendo passi da gigante grazie alle terapie di precisione.

«Le cure tradizionali come la chemioterapia e la radioterapia forniscono risposte saltuarie e poco durature», spiega Paola Queirolo, direttore oncologia medica del melanoma, sarcoma e tumori rari dell’Istituto europeo di oncologia di Milano. «L’approccio che utilizziamo oggi ha come bersaglio le mutazioni genetiche specifiche delle cellule tumorali. Nel 50% dei melanomi incontriamo una mutazione specifica del gene BRAF. Dal 2015 possiamo utilizzare farmaci a bersaglio molecolare. Ossia “target therapy” dirette contro questa mutazione».

Un’altra strategia terapeutica innovativa è l’immunoterapia, che dal 2011 ha rappresentato la vera svolta nel trattamento del melanoma. È da quell’anno che gli oncologi hanno a disposizione anticorpi monoclonali. Diretti contro i blocchi immunologici del sistema immunitario, sono in grado di «sbloccare» le difese immunitarie contro il tumore. «L’efficacia dell’immunoterapia è stata dimostrata per la prima volta nel melanoma. Ma oggi rappresenta la vera strada innovativa per il trattamento di tanti altri tumori. Come quelli di colon, mammella, testa e collo», sottolinea la specialista.

Target teraphy dopo l’intervento

I farmaci a bersaglio molecolare, invece, «sono inibitori di mutazioni specifiche del tumore e si assumono per via orale», conclude Queirolo. «La grande novità nella target teraphy è che da pochi mesi possiamo utilizzarla per il trattamento della fase adiuvante, post chirurgia». A gennaio 2020, infatti, l’Agenzia italiana del farmaco ha autorizzato la rimborsabilità da parte del Sistema sanitario nazionale della combinazione dei farmaci a bersaglio molecolare dabrafenib e trametinib e della immunoterapia con pembrolizumab e nivolumab nei pazienti con melanoma in stadio III, ad alto rischio di recidiva dopo l’asportazione chirurgica. Secondo studi condotti a livello internazionale, queste strategie terapeutiche hanno dimostrato di dimezzare il rischio che il tumore si ripresenti.

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Melanoma: le novità della ricerca

I numeri positivi del melanoma e le ultime conquiste terapeutiche non fermano medici e ricercatori. La sopravvivenza a cinque anni dei pazienti con melanoma in stadi avanzati ha toccato il 50%. Ma c’è ancora una metà di pazienti che mostra resistenza alla terapia combinata e non ce la fa. «Stiamo cercando di individuare le mutazioni che generano le resistenze. Sia alle terapie target sia a quelle immunologiche, per superarle», spiega l’oncologa. «E al prossimo congresso internazionale di oncologia presenterò i risultati del trattamento con la cosiddetta “tripletta”. Due farmaci a bersaglio molecolare e l’immunoterapia, nei pazienti con mutazione BRAF ad alto rischio di ricaduta che non rispondono alle cure utilizzate attualmente.

Con il mio team stiamo studiando anche nuove combinazioni di immunoterapia per superare i blocchi immunologici presenti nel nostro organismo. La sfida in questo caso sono gli effetti collaterali. Perché una volta sbloccate le difese si possono sviluppare malattie autoimmuni gravi, come coliti, tiroiditi, pancreatiti. Psicologicamente per un paziente può essere vantaggioso pensare di assumere un farmaco che aumenta le difese immunitarie, e non le abbassa come la chemioterapia, ma le reazioni collaterali non vanno sottovalutate».

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