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Renato Zero: ho rischiato di restare zoppo

«Una caduta dal palco e la caviglia a pezzi. Diagnosi: frattura trimalleolare»

«Per colpa di una botola aperta sul palco ho fatto un volo di ben due metri», racconta Renato Zero. «Un dolore pazzesco, di corsa in ambulanza. All’ospedale, la diagnosi: frattura trimalleolare, caviglia a pezzi. L’operazione, poi il gesso, le stampelle… Dormivo seduto e non potevo camminare. Per un anno e mezzo. Col timore di restare zoppo».
Ecco la confessione del cantante a OK e, a seguire, l’approfondimento di un ortopedico che spiega cosa succede quando si rompe la caviglia.

«Una caviglia a pezzi. E la paura di non farcela più a salire su un palco. Embé, che è? Non credete che io, Renatone vostro, abbia temuto di non riuscire manco a camminare? La vita è strana: uno cerca di adottare abitudini sane, di tenersi lontano dai pericoli e a un certo punto ti crolla il mondo addosso per una caduta che più scema non si può.
Ero al Palasport di Verona, anno 1998, terza tappa di una tournée che avrebbe dovuto essere molto più lunga. Buio in scena. Dovevo piazzarmi al centro, senza che il pubblico potesse vedermi, e cominciare a cantare. Era stata lasciata aperta per sbaglio la buca che si chiama americana, tra le tavole del palcoscenico e nell’oscurità, invece delle note, si sentì un tonfo.

Gruppo San Donato

Il piede destro girato all’indietro
Un volo di quasi due metri. Con me cadde l’asta del microfono, me la ritrovai per terra vicina alla faccia: due centimetri più in qua e forse non potrei raccontarvi la storia.
Agguantai il microfono e: “Scusate, ragazzi, son caduto, mi sa che stasera lo spettacolo è finito. Qualcuno di voi può chiamare un’ambulanza?”. Solo dopo si accesero le luci ma, lo stesso, non riuscivo a trovarmi il piede destro: era completamente girato all’indietro. Un dolore pazzesco.
I soccorsi arrivarono in pochi minuti e mi rimisero in assetto il piede. All’ospedale, la diagnosi: frattura trimalleolare del piede destro. Mi misero un tutore e mi spedirono a Roma per l’intervento. Uscii dalla sala operatoria con una placca di titanio di dieci centimetri fissata all’osso con quattro viti, più un enorme chiodo di sette centimetri che passava da una parte all’altra non so se di tibia o perone. Dei gioiellini (visto quel che costano) che mi tolsero dopo un anno. Li conservo ancora, volevo farci un bracciale.

Dopo l’intervento è cominciato un cammino lungo, difficile, di fisioterapia e riabilitazione. Per quattro mesi ho portato una sorta di ingessatura, di resina però. Per altri sei mesi un tutore. Tolto anche quello, camminavo, si fa per dire, soltanto con le stampelle. E se poggiavo il piede per terra il dolore era tale che credevo non avrei mai più usato le mie gambe come prima. Per fortuna avevo una fisioterapista bravissima che, oltre agli esercizi per muovere la caviglia, mi faceva fare la ginnastica dell’anima: “Aò, Renato, mica ti puoi buttare giù così. Proprio tu!”.
Mi dava forza soprattutto avere vicino mia madre. Allora vivevamo insieme. Trasferii la mia camera da letto al piano di sotto, vicino alla sua, perché non potevo fare le scale. Lei aveva tanti problemi. Ora non c’è più, dal 2003. Soffriva di Parkinson, aveva sempre mille pillole da prendere. Non volevo anche farla stare in ansia per le mie condizioni. Così, quando mamma era con me, minimizzavo. Ma dentro mi chiedevo se avrei mai ripreso la vita di prima.

Quell’incidente mi ha cambiato la vita
Ritornai su un palco, giusto un’apparizione, dopo sette mesi dall’incidente. Ma dovettero piazzarmi con una sedia lì in mezzo e cantai immobile. No, non ero io. Credo che la voglia di tornare a far musica alla mia maniera mi abbia dato la forza di continuare a fare fisioterapia e a non mandare a quel paese i medici che ripetevano: “Ci vuole pazienza, tempo, ancora qualche settimana”.
“Ma come?”, pensavo io. “Se i calciatori li rimettono in piedi in quattro giorni?”.
Io, invece, per mesi ho continuato a dormire semiseduto, senza potermi girare, con una specie di apparecchio elettrico intorno alla caviglia che non so che tipo di lavoro facesse per rimetterla in sesto di notte, mentre io cercavo di riposare ignorando i dolori. Ho ripreso a camminare dopo un anno e mezzo. Un periodo lunghissimo che però mi è servito per pensare.
Sì, l’incidente mi ha cambiato. Ora non rischio più. Per esempio, ho rinunciato alla moto. Perché con tutto quello che ti può succedere, ho pensato, meglio eliminare qualche situazione di pericolo. Però tranquilli, in concerto, mi metto in gioco e torno il Renatone che canta e balla per far dimenticare ai sorcini, almeno per due ore, i loro mali».
Renato Zero (testo raccolto da Barbara Rossi nel marzo 2009 per OK La salute prima di tutto)

IL FOCUS MEDICO: LA FRATTURA TRIMALLEOLARE
«Parti dell’articolazione delle caviglie, i malleoli sono individuabili dalle strutture ossee sporgenti», spiega il chirurgo del piede Marco Moscati (puoi chiedergli un consulto su OK). «La prominenza interna è il malleolo tibiale, quella esterna il malleolo peroneale e in più c’è il terzo malleolo (parte posteriore della tibia). La radiografia diagnostica una frattura trimalleolare quando si rompono tutti e tre».
Frattura composta: bastano un’ingessatura in vetroresina per 40 giorni, poi un tutore per un mese circa.
Frattura scomposta: si stabilizza il malleolo peroneale con una placca di titanio e il tibiale con delle viti. «Si fissa un’altra vite nel terzo malleolo solo in caso di frattura più ampia», continua Moscati. «L’ingessatura si tiene per circa tre settimane, senza caricare il peso, poi si porta un tutore per un mese circa con carico progressivo. Le viti verranno tolte dopo un anno».
Fisioterapia: necessaria in entrambe le fratture.

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