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Enrico Ruggeri: così ho detto addio alla miopia

«Con gli occhiali mi sentivo uno sfigato. E una volta, giocando a calcio, si sono rotte le lenti e mi sono ferito. Che potevo fare se non operarmi?»

«Da bambino non riuscivo a leggere alla lavagna», racconta Enrico Ruggeri. «Così ho iniziato a portare gli occhiali: un’ossessione che ha condizionato la mia più grande passione dopo la musica, il calcio. Fino a quando ho deciso di farmi operare. E il mondo è diventato chiaro».
Ecco la confessione del cantante e conduttore televisivo a OK .

«Ancora oggi, a distanza di anni dall’intervento, mi capita di svegliarmi e cercare tentoni con le mani gli occhiali sul comodino. Ritrovarsi tutt’a un tratto senza miopia ha cambiato la mia vita. Ad accorgersi che non ci vedevo bene, da bambino, furono i miei genitori.
Io ricordo solo che mi riusciva difficile leggere alla lavagna. Non fu facile sentire l’oculista che prospettava come unica soluzione possibile: “Il piccolo Enrico deve mettere gli occhiali”. Ci rimasi male.
È un dato di fatto che, al cinema, i ragazzini secchioni e un po’ fragili vengono raffigurati dal regista nello stesso modo: un paio di lenti spesse sul naso. La mia era una miopia che partiva da tre diottrie e mezzo e che, negli anni, è arrivata a cinque. Non mi ci sono mai abituato.

Gruppo San Donato

Sul campo i vetri mi ferirono
Da studente e poi anche da adulto, ho sempre cercato di sdrammatizzare in qualche modo l’obbligo degli occhiali. E per questo, a 21 anni, quando ero il cantante dei Decibel, provai a giocare con l’effetto cromatico: montature bianche su lenti scure.
Poi arrivò il 1984 ed entrai a far parte della Nazionale cantanti. Per essere sicuro che non mi saltassero via le lenti in mezzo al campo da calcio, avevo una montatura particolare legata con uno scotch elastico, che però non riusciva a darmi una visione panoramica. Con la coda dell’occhio non vedevo bene come avrei voluto.
Un’ossessione. Ormai stavo diventando totalmente refrattario agli occhiali. Ma la molla che mi fece decidere per l’intervento di cui allora appena si parlava, scattò il giorno dello scontro.

Accadde nel 1987, durante una partita contro la Nazionale femminile. A un certo punto partì una palla a campanile che mi costrinse a fare un salto per un colpo di testa. Una botta fortissima. Non contro la palla, contro la capoccia di un’avversaria, che mi mandò in mille pezzi i vetri.

Rifiutavo le lenti a contatto
Ferita sulla palpebra e sette punti senza anestesia. E mi andò pure bene perché istintivamente chiusi l’occhio ed evitai lesioni interne.
Ero a un bivio. Se volevo continuare a giocare a pallone dovevo far qualcosa. Subito o mai più. Le lenti a contatto? Mai prese in considerazione, l’idea di infilarmi ogni giorno quella laminetta negli occhi la rifiutavo a priori.
La soluzione era una sola: farmi operare. Poco o niente si sapeva della cheratotomia radiale, soltanto che si trattava di un intervento di chirurgia refrattiva per correggere la miopia, messo a punto in Russia. A introdurre la metodica in Italia fu Fabio Dossi, che operava a Torino. Andai da lui soltanto per avere qualche notizia in più, ma ero più che risoluto.
Lo specialista mi confermò che si poteva fare e, contemporaneamente, mi avvertì dell’unico rischio: non era sicuro che la miopia sarebbe stata azzerata, probabilmente le diottrie si sarebbero ridotte da cinque a una.

Meno di due ore sul lettino
Dicembre 1987. Mi proposero di trattare un occhio alla volta. Rifiutai, ormai ero in ballo e mi sentivo pronto. Optai per l’anestesia locale, ma quando in sala operatoria avvicinarono le pinze alla cornea, diedi in escandescenze e mi dovettero praticare la narcosi.
Complessivamente, sul lettino della sala operatoria rimasi meno di due ore. Appena sveglio mi ritrovai bendato e per tranquillizzarmi, medici e infermieri scandirono a voce alta: “È andato tutto bene”. Non avevo motivo di dubitare, però preferii controllare sollevando in alto un angolino della benda. Solo un attimo, giusto per vedere la luce e poi aspettare serenamente le 48 ore di prammatica.

Lasciai la clinica euforico
Uno dei primi a venirmi a trovare fu Mogol: ero il capitano della Nazionale cantanti e voleva sincerarsi che il suo numero 10 fosse ancora in condizione di giocare. Nei primi giorni ebbi una fastidiosa sensazione di nausea, ma si capisce: vedevo in maniera troppo nitida e io, col mio cervello da miope, non ci ero abituato. Un problema di accomodamento che per fortuna si risolse presto.
Prima di lasciare la clinica mi consegnarono anche la videocassetta con tutta l’operazione. Mai vista.
Ero in uno stato di euforia. Come adesso, se solo ci ripenso: inebriato di felicità».
Enrico Ruggeri(testo raccolto da Renata De Palma a maggio 2008)

L’INTERVENTO DI RUGGERI OGGI NON SI FA PIU’
«La prima tecnica chirurgica contro la miopia, sperimentata da Enrico Ruggeri, ossia la cheratotomia radiale, è ormai abbandonata», nota Cristina Alfieri, dirigente della divisione di oculistica dell’ospedale Pellegrini di Napoli (puoi chiederle un consulto). «Oggi le metodiche correttive sono numerose». Le più conosciute e utilizzate si basano sul laser a eccimeri (leggi quali sono).

Ultimo aggiornamento: 13 novembre 2009

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