Disabili

La tecnologia aiuta, ma non risolve

Sono alcune settimane che provo a camminare con il Rewalk, a oggi percorro sì e no un corridoio di 15 metri, ed è forse venuto il momento di tirare le somme. E l'occasione viene proprio nel momento in cui leggo sul Corriere della Sera di una donna, Jan Scheuermann di 53 anni, paralizzata dal collo in giù, che è riuscita a muovere un braccio robotico controllandolo con il pensiero. Il tutto grazie ad alcuni sensori impiantati nella corteccia cerebrale.

Sono alcune settimane che provo a camminare con il Rewalk, a oggi percorro sì e no un corridoio di 15 metri, ed è forse venuto il momento di tirare le somme. E l’occasione viene proprio nel momento in cui leggo sul Corriere della Sera di una donna, Jan Scheuermann di 53 anni, paralizzata dal collo in giù, che è riuscita a muovere un braccio robotico controllandolo con il pensiero. Il tutto grazie ad alcuni sensori impiantati nella corteccia cerebrale.

I ricercatori della facoltà di medicina dell’università di Pittsburgh, che hanno pubblicato il loro studio sulla rivista The Lancet, le hanno impiantato due sensori, ognuno di 4 millimetri quadrati con un centinaio di minuscoli aghi, che raccolgono l’attività elettrica di 200 cellule cerebrali. Gli impulsi elettrici del cervello vengono trasformati in comandi per muovere il braccio robotico, che piega il gomito, il polso e può così afferrare un oggetto. Ottimo! mi sento di gridare sulle prime, ma poi un po’ di melanconia e “umor nero” mi prendono. Benvengano ausili tecnologici che amplifichino le possibilità di chi, per trauma o malattia, scopre le difficoltà di una vita senza il controllo di una parte del proprio fisico. Mi ricorda lo slogan di una pubblicità di un famoso prodotto dolciario: Non risolve, ma aiuta.

Gruppo San Donato

Sì questi oggetti sono un ampliamento del proprio essere, un tentativo di recuperare alcune funzionalità perse nel tragitto della vita. Sono strumenti utili, importantissimi, ma non risolutivi. Oggi, dopo l’esperienza del ritorno al cammino, sento ancora più forte l’esigenza di una cura vera e propria. Ho potuto infatti gustarmi le sensazioni del cammino, la ritrovata altezza (mi pesa guardare tutti dal basso verso l’alto), ma anche la delusione, a cui mi ero preventivamente preparato, di capire che questa tecnologia mi servirà a poco.

Quando quattro mesi fa vidi per la prima volta Manuela Migliaccio rimasi affascinato dall’agilità con cui sembrava muoversi, poi ho provato e  mi sono reso conto di quanto le differenze fisiche (altezza e peso) e di lesione (la mia all’altezza del petto, la sua all’altezza del bacino) influiscono sull’uso delle gambe robotiche. Lei agile riesce a controllare i movimenti del Rewalk con il movimento ritmico del bacino. Io no. Divento quindi passivo, il Rewalk comanda io lo seguo. Ma la cosa che mi infastidisce di più è quello di non essere autonomo, forse perché sono solo a metà del percorso di training, devo essere accompagnato da due persone lungo il percorso.

Ciò non toglie nulla ai meriti della tecnologia, così il pessimismo lascia spazio a una visione più ampia. Nulla vieta di pensare che in breve si studino ausili sempre più adatti per ciascun tipo di lesione. Quello che non va bene a me è invece utile per chi fresco di lesione ha necessità di tornare presto a camminare, per chi, avendo una lesione bassa, può pensare di sostituire le protesi rigide con due gambe robotiche… insomma per tanti. E se poi guardiamo all’esperienza di Pittsburgh non si può che sperare in un futuro megliore.

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