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Pregare aiuta davvero a superare le malattie?

Nessuno studio scientifico può dimostrare con certezza che la fede sia d’aiuto nelle malattie. Ma in alcuni casi pregare allevia realmente le sofferenze

C’è chi si inginocchia nella propria stanza davanti al crocifisso, chi porta sempre con sé l’immaginetta di un santo, chi addirittura si imbarca in lunghi pellegrinaggi a Fatima, Medjugorje o Lourdes per chiedere la grazia. Fin dalla notte dei tempi l’uomo si rivolge al divino per cercare sostegno e conforto nella malattia e chiedere la guarigione. «La preghiera è la migliore arma che abbiamo», ha detto papa Francesco nel febbraio del 2016 ai dipendenti e agli ospiti della Casa Sollievo della sofferenza, la struttura ospedaliera fondata da padre Pio a San Giovanni Rotondo (Foggia). E in più occasioni, soprattutto durante la Giornata mondiale del malato, che si celebra ogni anno l’11 febbraio, Bergoglio ha esortato chi sta male a pregare.

Da sempre la scienza indaga sul potere della fede 

Del resto, anche la scienza si è interrogata sul ruolo della fede nel decorso delle malattie, svolgendo una gran quantità di ricerche. Una delle principali è quella condotta dal cardiologo Herbert Benson, fondatore del Benson Henry Institute for Mind Body Medicine al Massachusetts General Hospital di Boston. L’esperto ha studiato per anni gli effetti della meditazione su malattie coronariche, equilibrio metabolico, apparato respiratorio.

Gruppo San Donato

Prayer therapy

Ci sono poi due indagini condotte una a San Francisco e l’altra a Kansas City sugli esiti della prayer therapy sulle patologie del cuore, mentre un altro lavoro, condotto in Israele su quasi 4.000 pazienti, ha esaminato gli effetti sulle infezioni gravi. Non mancano le ricerche italiane, come quella degli studiosi dell’Università di Pavia sul rapporto tra preghiera e pressione arteriosa. Una delle meta-analisi internazionali più recenti, pubblicata sull’Indian Journal of Psychiatry, ha rivisto in modo sistematico tutti gli studi precedenti. I risultati? Molto variabili. Alcune ricerche sono giunte alla conclusione che pregare non cambi le condizioni dei malati, altre che faccia bene, altre ancora che faccia addirittura male.

La religiosità come un effetto placebo

Secondo gli esperti, gli esiti positivi sarebbero però da prendere con le pinze, in quanto influenzati da vari fattori che con la spiritualità c’entrano ben poco. Si tratta, in particolare, dell’effetto placebo, che, come spiega Fabrizio Benedetti, professore ordinario di neurofisiologia e fisiologia umana all’Università di Torino, nel suo libro L’effetto placebo, breve viaggio tra mente e corpo (edito da Carocci), ha alla base condizionamenti che influiscono vantaggiosamente sui meccanismi biochimici che stanno dietro ai disturbi.

Tradotto in soldoni, un atteggiamento fiducioso può innescare il rilascio di endorfine, gli ormoni del benessere, che tengono alla larga i sintomi dolorosi. E chi sa che qualcuno sta pregando per lui potrebbe stare meglio perché si sente accudito e amato e ha la consapevolezza di non essere solo.

Del resto, l’aspetto psicologico riveste un ruolo importante nelle malattie. Non a caso, in alcuni ospedali specializzati nella cura cura dei tumori è a disposizione un servizio di psico-oncologia, che favorisce il benessere e migliora la qualità di vita delle persone malate. «Anche la preghiera agisce a livello psicologico, generando fiducia, speranza, ottimismo», spiega Giuseppe Remuzzi, coordinatore delle ricerche dell’Istituto Mario Negri di Bergamo. «È stato dimostrato che questi elementi favoriscono l’aderenza al percorso terapeutico nel caso delle malattie più serie e la guarigione nel caso di quelle non gravi». Trovare sostegno in rosari e orazioni, dunque, va bene, a patto di seguire nel contempo i consigli dei medici e di non rinunciare a trattamenti e medicine affidandosi ciecamente a un’entità superiore.

The Lancet: le ricerche sono inconsistenti

In effetti, nel tentativo di dialogo fra scienza e fede, la classe medica non ha potuto far altro che prendere le distanze dai risultati suggestivi e altisonanti di alcune ricerche, vuoi perché troppo «di parte», vuoi perché totalmente prive di connotati scientifici. È il caso, per esempio, degli studi condotti in comunità che pregano abitualmente, come i frati trappisti, le suore di clausura o i monaci buddisti.

Secondo gli esperti queste ricerche non hanno valore scientifico perché influenzati da distorsioni. Questi gruppi infatti mantengono uno stile di vita sano, che fa colare a picco i fattori di rischio, come alcol, fumo, alimentazione squilibrata, attività sessuale sregolata. Anche la prestigiosa rivista The Lancet ha liquidato le ricerche tese a dimostrare la correlazione positiva tra spiritualità e salute come «inconsistenti», soprattutto a causa di grossolani errori metodologici, della scarsa rappresentatività statistica del campione, di criteri di valutazione soggettivi.

Alcuni studi veri e propri inganni 

Nel mare magnum non sono mancati casi di veri e propri inganni, come racconta Remuzzi. «C’era uno studioso che sosteneva che la preghiera fosse in grado di proteggere da alcune complicanze dell’Aids. Aveva ricevuto anche dei finanziamenti dal governo per condurre le sue ricerche, ma poi si è scoperto che truccava i dati. Ancora più clamoroso il caso di un ricercatore coreano che lavorava a New York nell’ambito della fecondazione assistita. L’uomo aveva pubblicato nel 2001 uno studio volto a dimostrare che le donne che pregavano avevano più probabilità di restare incinte. Il tutto si rivelò una frode».

Del resto, già alla fine dell’Ottocento, lo scrittore Émile Zola aveva etichettato come «illusioni» le speranze di chi crede che, recandosi nel santuario francese di Lourdes, «quando si è coperti di piaghe, si hanno gli arti torti, il ventre gonfiato da un tumore o i polmoni distrutti», tutto possa «sparire e rinascere sotto un segno della Vergine».

Si riducono ansia e depressione

Eppure, alcune evidenze mettono in luce i benefici psicofisici della fede. Se recitare una sequela di Ave Maria o di Padre Nostro non serve certo a proteggere o a far guarire dal cancro o dal diabete, è pur vero che può avere effetti favorevoli nel caso di alcuni disturbi neurologici o psichiatrici. Ad esempio, sono stati riscontrati vantaggi nel tenere a bada la depressione e l’ansia, come suggeriscono le ricerche condotte dall’epidemiologo Mauricio Avendano del King’s College di Londra su assidui frequentatori di un luogo di culto, sia esso una chiesa, una sinagoga o una moschea.

«Tutti i tipi di impegno sociale, anche grazie al senso di appartenenza e di inclusione che ne deriva, hanno un impatto positivo sulla salute mentale e quindi indirettamente sulla salute generale, soprattutto nel caso di persone anziane», sottolinea Avendano. Uno studio condotto dal National Institutes of Health degli Stati Uniti sostiene, inoltre, che le donne che pregano regolarmente hanno una probabilità inferiore del 50% di sviluppare demenza lieve o malattia di Alzheimer. «Ripetere alcune formule o litanie richiede uno sforzo mnemonico, che può contribuire a proteggere il cervello dal decadimento cognitivo», conferma Remuzzi.

Non si può sottoporre Dio a test di laboratorio

Nonostante le inevitabili differenze di presupposti, tra scienza e fede c’è un continuo tentativo di dialogo, le cui conclusioni non sono certe. Umberto Veronesi pensava che, di fronte a una malattia, aggrapparsi alla fede, a un Dio dal potere taumaturgico, fosse «degno di profondo rispetto». Dello stesso avviso è Avendano, che sostiene che occorre «intervenire seguendo le evidenze scientifiche, senza però sottovalutare le credenze dei pazienti che possono giovare nel corso dell’iter terapeutico». In definitiva, conclude Remuzzi, «non è possibile sottoporre Dio a un test di laboratorio. Non si possono utilizzare i criteri della ricerca scientifica per ciò che riguarda la fede. Se Dio c’è, non si presta certo a uno studio controllato; se non c’è, il problema non sussiste».

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