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Malattia di Parkinson: cause, sintomi, diagnosi e cure

I malati di Parkinson in Italia sono 300.000. Nei prossimi anni i numeri continueranno ad aumentare e a colpire pazienti ancora in età lavorativa

La malattia di Parkinson è un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato principalmente dalla degenerazione di alcune cellule nervose (neuroni) situate in una zona profonda del cervello denominata sostanza nera. Queste cellule producono la dopamina. Si tratta di un neurotrasmettitore che permette di far arrivare i messaggi ai neuroni in altre zone del cervello. È indispensabile per il controllo dei movimenti automatici di tutto il corpo. Quando, a causa della progressione della malattia, il numero di neuroni produttori di dopamina si riduce di oltre il 50%, compaiono i sintomi del Parkinson.

Quali sono le cause?

La causa del processo non è nota con precisione, ma si ritiene che una predisposizione genetica possa aumentare il rischio di sviluppare la patologia. In particolare, uno studio italiano pubblicato pochi mesi fa su Frontiers in Genetics ha analizzato il genoma di 845 persone, identificando 11 nuovi geni implicati nell’origine della malattia.

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Altri fattori che possono avere un ruolo sono la difficoltà nell’eliminare in modo corretto l’alfa-sinucleina, traumi cranici ripetuti, prolungata esposizione ai pesticidi utilizzati in agricoltura.

Quali sono i sintomi del Parkinson?

Nella malattia di Parkinson si possono identificare tre fasi.

  1. La prima è caratterizzata dai sintomi cosiddetti prodromici, che includono tra gli altri depressione, ansia, alterazioni del sonno nella fase Rem (Rapid eye movement), durante la quale avvengono i sogni.
  2. Dopo un periodo prolungato, anche cinque-dieci anni, subentra la seconda fase, in cui compaiono i sintomi motori, come tremore alla mano, rallentamento nel cammino, rigidità nei movimenti, postura curva (camptocormica).
  3. C’è, infine, la terza fase, contrassegnata dai sintomi più gravi e invalidanti, che possono includere instabilità posturale con tendenza alla caduta, disturbi cognitivi fino a una vera e propria demenza, incontinenza urinaria, pressione bassa del sangue (ipotensione ortostatica), seborrea ed eccessiva sudorazione, perdita di saliva (scialorrea), secchezza degli occhi (xeroftalmia), stipsi.

Come si arriva alla diagnosi della malattia di Parkinson?

In prima battuta la diagnosi si basa sulla storia clinica del paziente e sull’esame neurologico eseguito durante la visita. Poi si eseguono esami come la risonanza magnetica nucleare e una tecnica per neuroimmagini, la Spect con il tracciante DatScan, che permette di quantificare l’attività dopaminergica residua. Per il completamento diagnostico esiste la tomografia ad emissione di positroni (Pet). Infine, i test farmacologici a base di sostanze dopaminergiche a rapido assorbimento che consentono di valutare il miglioramento motorio segno di una buona risposta recettoriale.

Quali sono le terapie?

Levodopa

Oggi la principale risorsa per contrastare i sintomi della malattia, in particolare quelli motori, è la levodopa, un farmaco che supplisce alla carenza di dopamina. Questa molecola è sicura ed efficace. Tuttavia, dopo alcuni anni di terapia a dosaggi elevati, potrebbe generare alcune complicanze, in particolare ulteriori sintomi motori, come movimenti involontari.

Prima terapia a base di foslevodopa/foscarbidopa

Recentemente AbbVie ha annunciato l’arrivo della combinazione foslevodopa/foscarbidopa per uso sottocutaneo per il trattamento del Parkinson in fase avanzata, rispondenti a levodopa, con gravi fluttuazioni motorie e ipercinesia o discinesia (movimento eccessivo), nel caso in cui le combinazioni di medicinali disponibili non abbiano dato risultati soddisfacenti.

Si tratta della prima e unica terapia a base di foslevodopa/foscarbidopa in infusione sottocutanea a somministrazione continua, 24 ore su 24, che può aiutare i pazienti a prolungare il periodo in cui i sintomi sono ben controllati. «Questa approvazione rappresenta un progresso significativo per i pazienti affetti dalla malattia di Parkinson, che storicamente hanno avuto opzioni di trattamento limitate per gli stadi avanzati», sottolinea Angelo Antonini, Professore di Neurologia presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Padova. «Quando il trattamento orale non è più sufficiente a migliorare le fluttuazioni motorie, i pazienti hanno bisogno di opzioni alternative. L’infusione 24 ore su 24 consente una somministrazione continua di levodopa, che è tuttora il gold standard della terapia».

Altri farmaci

Come la levodopa, ci sono altri farmaci in grado di sostituirsi alla dopamina mancante:

  1. Dopaminoagonisti: a differenza della levodopa, vanno a stimolare direttamente i recettori dopaminergici nel cervello. I dopaminoagonisti possono esser utilizzati da soli all’inizio di malattia o in associazione alla levodopa e ad altri farmaci nelle fasi più avanzate.
  2. Inibitori enzimatici: ne esistono di diversi tipi. Gli inibitori dell’enzima dopadecarbossilasi (carbidopa e benserazide) sono molecole già contenute nelle formulazioni commerciali di L-Dopa per ridurre gli effetti periferici. Abbiamo poi gli inibitori delle catecol-O-metiltransferasi (entacapone e tolcapone), che vengono usati in associazione alla levodopa per aumentarne la permanenza nel sangue, e quindi l’efficacia nel tempo, quando appaiono le prime fluttuazioni motorie. Gli inibitori delle monoaminoossidasi di tipo B (selegilina, rasagilina) bloccano l’enzima che metabolizza la dopamina nel cervello.
  3. Anticolinergici: efficaci in particolare contro i tremori, non vengono somministrati in caso di ipertrofia prostatica e al di sopra di 70 anni perché facilitano i disturbi della memoria.
  4. Amantadina: un tempo utilizzata nella terapia della fase iniziale di malattia, è attualmente impiegata con lo scopo di ridurre alcuni degli effetti collaterali (movimenti involontari o discinesie). Gli effetti collaterali dell’amantadina possono essere il gonfiore alle gambe e la comparsa di reticoli venosi sottocutanei.

Sempre uno studio condotto nei Paesi in via di sviluppo ha permesso di scoprire una terapia naturale: la mucuna pruriens. Si tratta di un particolare legume i cui semi contengono un’alta concentrazione di levodopa.

La stimolazione cerebrale profonda

Quando la terapia farmacologica non basta più, di solito dopo 15 anni dall’esordio della malattia, si può ricorrere alla stimolazione cerebrale profonda. È una sorta di pacemaker che emette piccole quantità di energia elettrica in un’area precisa del cervello modulando l’attività dei neuroni coinvolti nel movimento.

Nuove molecole 

Se le terapie in uso hanno il solo scopo di rendere meno gravosi i sintomi, la speranza nel prossimo futuro è di riuscire a bloccare, o perlomeno a rallentare, la progressione della malattia. Una revisione pubblicata nel 2020 sul Journal of Parkinson’s Disease afferma che le nuove molecole attualmente in fase di studio nell’uomo per tale scopo sono circa 150, a cui si aggiungono quelle studiate in laboratorio nei modelli cellulari o negli animali.

L’ambito più promettente è al momento quello degli anticorpi monoclonali, farmaci mirati a eliminare gli agglomerati di alfa-sinucleina. Tra questi, si annoverano, per esempio, prasinezumab, PD01A e PD03A. Ci sono poi molecole che agiscono riducendo la neuroinfiammazione, come xenatide, liraglutide, lixisenatide.

Cellule staminale e terapia genica

Molto promettenti anche le sperimentazioni con le cellule staminali, ovvero cellule indifferenziate in grado di trasformarsi in cellule dei diversi organi o tessuti. Nel caso del Parkinson, l’obiettivo degli scienziati è quello di produrre cellule in grado di sostituire i neuroni dopaminergici, la cui funzionalità viene meno nel corso della malattia.

Un altro ambito interessante è quello della terapia genica. Uno studio comparso sulle pagine di Nature nel 2020 e realizzato sui topi dagli scienziati della University of California San Diego School of Medicine, negli Stati Uniti, ha dimostrato che basta l’inibizione di un singolo gene specifico per mettere in moto una «fabbrica» di neuroni che producono dopamina.

La riabilitazione

La riabilitazione è particolarmente utile per alcuni problemi che non vengono risolti dai farmaci, quali il freezing (i piedi che si «incollano» per terra) e la camptocormia (tendenza a piegarsi in avanti), la perdita di equilibrio. Nei centri di cura del Parkinson, sta diventando molto più diffuso l’uso della terapia fisica, anche perché i pazienti vivono più a lungo rispetto a 20 anni fa.

La difficoltà dei movimenti può portare il parkinsoniano a una vita sedentaria, che favorisce l’accentuazione dei disturbi e compromette l’autonomia funzionale. Qualsiasi tipo di attività fisica, anche una semplice camminata, ne rallenta invece il degrado. I benefici maggiori si ottengono in particolare con la fisiochinesiterapia passiva e con specifiche tecniche di rieducazione motoria. Bene anche attività non sportive come danza e tango, pilates, yoga e Tai chi.

La dieta per chi soffre di Parkinson

L’alimentazione gioca un ruolo fondamentale nell’alleviare alcuni sintomi dei pazienti di questa malattia. Nelle prime fasi della patologia spesso le persone prendono peso, mentre quando il Parkinson vive stadi avanzati si va incontro a mal nutrizione e sottopeso. I consigli dell’esperta possono aiutare nella gestione di questi problemi.

La stipsi

Una delle conseguenze che devono essere contrastate subito è la stitichezza. A causa della malattia possiamo avere un rallentamento della funzionalità gastro-intestinale dovuto alla malattia. La stipsi può insorgere anche per gli effetti indesiderati dei farmaci. Combatterla è una priorità, perché a lungo andare questa disfunzione può davvero compromettere lo stato di salute del paziente.

Qui puoi trovare i centri per la cura del Parkinson.

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