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Vuoi portarti il lavoro in vacanza? Non farlo

Con smartphone e tablet l'ufficio ci segue anche in spiaggia. Il fenomeno è sempre più diffuso, ma ricorda: hai bisogno di staccare la spina, ne va della tua salute psichica

C’è chi si presenta sotto l’ombrellone con il computer portatile in grembo. C’è il professionista armato di tablet, che da bordo piscina avvia contrattazioni con i fornitori. C’è il manager rampante che zampetta per i prati col telefonino all’orecchio, mentre la famiglia lo aspetta allo chalet. C’è chi, invece di tuffarsi dal trampolino, controlla la mail aziendale e c’è chi, nel cuore di un’antica città d’arte, fa lo slalom tra i monumenti in cerca di una presa di corrente per lo smartphone.

Estate, è tempo di vacanza

Una parola sospirata e fascinatrice, ma che non tutti riescono a godersi. La colpa? È del lavoro, la cui ombra, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, è ormai in grado di inseguire ovunque: dal mare ai monti, passando per laghi, colline e campagne. Staccare la spina, insomma, rischia di diventare una piccola utopia: con buona pace di familiari, amici e compagni di viaggio. Ma soprattutto, della salute psichica. «Si tratta di un fenomeno sempre più diffuso, soprattutto tra manager, professionisti e lavoratori autonomi», spiega la psicoterapeuta Rosa Mininno, direttrice scientifica della Rete Nuove Dipendenze, che raduna esperti di problemi connessi a internet. «Spesso, anche a causa delle incertezze generate dalla crisi, il lavoro è visto come una priorità assoluta. Tutti gli altri interessi e le altre attività rischiano così di scivolare in secondo piano: a cominciare proprio dalle vacanze».

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Insomma, non ci si gode le ferie, si pensa spesso all’ufficio e si fa fatica, anche solo per qualche ora, a lasciare spenti cellulari e computer. Niente paura, però: anche i peggiori stakanovisti, con un po’ di buona volontà e qualche sano accorgimento, possono conquistare l’agognato relax. A piccoli passi.

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Per lo stakanovista relax a piccoli passi 

Un libro aperto, il mare e l’ombrellone: sembrerebbe la ricetta ideale per convincere chiunque a non pensare agli impegni professionali. Eppure in molti casi non basta. Non sempre, infatti, si è disposti a rinunciare spontaneamente ai propri presunti doveri. «Per quanto possa apparire intuitiva, la terapia d’urto va assolutamente evitata», spiega Andrea Castiello d’Antonio, professore straordinario di psicologia clinica e del lavoro all’Università Europea di Roma e autore del libro Malati di lavoro (Cooper, 2011). «La ragione è molto semplice. Prendete un manager, strappatelo dal suo ufficio, caricatelo in macchina e portatelo in un rifugio d’alta montagna, senza né telefonino né computer: molto probabilmente non resisterà più di qualche giorno». Capita spesso, in situazioni simili, che il superlavoratore rovini la vacanza ad amici e familiari. Nei casi limite, si parla addirittura di crisi d’astinenza da lavoro: il nostro uomo si sente esasperato, fa le valigie e se ne torna in città. Il che, ovviamente, va evitato a ogni costo.

dipendenza da lavoro

Le strategie

«Meglio adottare una strategia soft», consiglia Castiello d’Antonio. «Il distacco dall’ufficio deve avvenire per piccoli passi, senza traumi. Anche perché, ed è bene non dimenticarlo, il passaggio improvviso da una situazione di eccesso di lavoro e di stress a una di totale dolce far niente può avere effetti negativi a livello fisico: le difese immunitarie si rilassano, lasciando via libera a emicranie, febbrialtri disturbi psicosomatici. Tutti problemi che sempre, ma soprattutto in vacanza, decisamente non fanno piacere». Per lo stakanovista, dunque, via libera all’i-Pad, con qualche breve full immersion professionale anche sotto l’ombrellone: l’importante è stabilire degli orari ben precisi, comunicandoli anche ai propri colleghi in ufficio. Al di fuori di quegli orari, però, il cellulare dovrebbe restare spento. «In genere», assicura Castiello d’Antonio, «sono necessari tre-quattro giorni di “limbo” prima che il fanatico del lavoro cominci a entrare nel climavacanza, rilassandosi sul serio e riuscendo (si spera) a staccare la spina».

Un’altra ottima strategia, che incontra il favore mentale dei manager, consiste nel fissare degli obiettivi per ritemprare il fisico: ogni giorno un’ora di passeggiata sul bagnasciuga o un po’ di corsa. Il relax come fosse un lavoro: sembra un paradosso, eppure funziona.

La sindrome dei malati dalla scrivania va curata

Ci sono casi in cui questi rimedi fai da te non sortiscono effetti. E l’attaccamento all’ufficio in ferie potrebbe essere un sintomo della sindrome da dipendenza dal lavoro, che può far diventare avvocati o impiegati dei drogati di e-mail come i tossici lo sono della cocaina. Gli americani hanno coniato il termine workaholism per descrivere la tribù di ossessionati dalla scrivania.

Non sono i soldi, la carriera oppure l’approvazione degli altri a spingere il malato di lavoro alla dedizione. Semplicemente, non può farne a meno. Raggiunge picchi di 11 ore lavorative al giorno. Rinuncia alla famiglia, agli affetti, al tempo libero. E poi, ovviamente, anche alle vacanze. E se è costretto a staccarsi dal lavoro per andare in ferie, il workaholic ha sintomi da crisi di astinenza: è irritato, ansioso, pensa solo a quello. Proprio come con una droga.

Stiamo parlando di uomini in carriera assetati di potere? No: un tempo questo era lo stereotipo, ma oggi la dipendenza da lavoro colpisce anche le donne e ogni tipo di occupazione. Dai dirigenti agli impiegati, soprattutto quelli con mansioni intellettuali. I più a rischio sono i soggetti insicuri, che mascherano la loro fragilità interiore con una (apparentemente) forte identità professionale. Spesso si sono ritrovati con genitori che hanno sempre preteso da loro ottimi risultati.

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Dietro la dipendenza,
la voglia di non impegnarsi in coppia

«Dietro al bisogno di lavorare si nasconde anche la voglia di non essere impegnati in affetti e relazioni intime», dice Castiello d’Antonio. «Gli unici rapporti accettati sono quelli lavorativi: la coppia si sgretola in silenzio, la famiglia finisce per escludere il workaholic». Oppure ne diventa complice, trasformandolo in un eroe: «poverino, lavora così tanto ma lo fa per noi», è la classica giustificazione. Dietro alla work addiction c’è anche una spinta culturale: nella nostra società la dedizione al lavoro è apprezzata e, in tempi di crisi, chi ha un posto sente di dover fare tutto il possibile per non perderlo.

Il workaholism, insomma, è una dipendenza pulita, socialmente accettata e valorizzata: chiedete a un direttore del personale, vi risponderà che avere uno stakanovista in ufficio è un bene, non un problema. Per questo è difficile da diagnosticare e da curare: i limiti tra droga e passione, tra compulsione e dovere, tra dipendenza e motivazione, sono, infatti, molto sottili. Interviene Castiello d’Antonio: «Di solito serve un episodio drammatico perché ci si decida a chiedere aiuto: la famiglia che si sfascia, un incidente, un trauma o un episodio acuto come l’infarto. Allora bisogna rivolgersi allo psicologo o a un centro specializzato nella gestione dello stress lavorativo. Ma l’unica vera cura è la psicoterapia che, nelle situazioni più pesanti, può essere accompagnata da un supporto psicofarmacologico, in genere a base di ansiolitici».

I sintomi patologici

Si possono cogliere prima delle avvisaglie? «Sì, esistono sintomi ben precisi», risponde lo psicologo e psicoterapeuta Cesare Guerreschi, presidente della Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive. «Tra questi si notano: mal di testa, ulcere, depressione, irritabilità e ansia. Nella maggior parte dei casi, il malato non si rende conto della propria condizione. Spetta, dunque, ai familiari il compito di aprirgli gli occhi, indirizzandolo verso uno specialista nel tentativo di curarlo. Si propone, in questi casi, la partecipazione a un progetto terapeutico, studiato ad hoc sulla base delle esigenze della persona». Spesso le avvisaglie più evidenti balzano all’attenzione proprio durante le ferie: guai a non farci caso!

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