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Bore out: si può soffrire per un lavoro troppo noioso?

In ufficio e nella vita la sindrome del bore out ha le stesse conseguenze negative del burn out

Stress e lavoro. Un argomento sempreverde, tornato di grande attualità perché nel 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità ha riconosciuto ufficialmente come malattia la sindrome del burn out. Ma mentre è ormai evidente come l’eccessivo carico di mansioni e responsabilità sia logorante e porti allo sfinimento, ancora poco si sa dell’esatto opposto: il bore out. La mancanza di stimoli, il mancato coinvolgimento nel lavoro, le attività meccaniche e ripetitive, possono essere causa di un forte disagio? La risposta è sì, la sindrome del bore out, l’esaurimento dettato dalla noia, ha caratteristiche chiare. Chi ne è afflitto non gongola del proprio far nulla, ma soffre per l’inattività prolungata.

Le ripercussioni?

Le stesse del burn out: frustrazione, crollo dell’autostima, fino allo spauracchio della depressione. Ma non solo. Uno studio londinese pubblicato sull’International Journal of Epidemiology condotto su 7mila dipendenti pubblici monitorati per 25 anni ha mostrato che i lavoratori che lamentano alti livelli di noia hanno un rischio doppio di decessi per malattie cardiache o ictus rispetto a coloro che trovano divertente la vita. Il detto «annoiarsi a morte» sembra quindi avere un riscontro scientifico, ipotizzano i ricercatori britannici, perché le persone annoiate hanno maggiori probabilità di ricorrere ad abitudini malsane come bere e fumare, il che può ridurre la loro aspettativa di vita.

Gruppo San Donato

Un fenomeno osservato da poco

Se di sindrome dello stress da lavoro si parla da anni, quella dell’annoiato cronico è una scoperta recente. «Il termine bore out è nato nel 2007, quando due consulenti aziendali svizzeri, Peter Werder e Philippe Rothlin, pubblicarono un volume dal titolo Diagnose Boreout», spiega Lucio Sarno, ordinario di psicologia clinica e psicoterapia alla facoltà di medicina e chirurgia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Da allora, la sindrome viene vista come una variante speculare del burn out. Se nel caso di quest’ultimo, è l’eccesso di investimento emotivo, e non solo, a generare una sorta di blackout psicofisico che può avere ricadute negative sul piano professionale e personale (fisico e mentale), nel bore out è il contrario. Cioè il venir meno di qualsiasi possibilità di coinvolgimento emotivo e motivazionale».

Nonostante manchi un riconoscimento ufficiale, la comunità scientifica non è rimasta indifferente al problema. «Diversi studiosi se ne sono occupati nel corso degli anni, come Wolfgang Merkel, psicoterapeuta tedesco, che ne ha esaminati gli effetti, dall’inerzia al calo di energia, fino all’insonnia», racconta Luciana D’Ambrosio Marri, sociologa del lavoro, esperta di sviluppo delle persone e benessere in ambito lavorativo. «Tutti abbiamo le nostre giornate no, in cui ci trasciniamo al lavoro senza voglia. Ciò può anche accadere per un periodo di tempo più o meno breve. Qui parliamo però di sintomi ricorrenti e prolungati. Il bore out è una noia cronica, esasperata, che deriva dalla perdita di senso nell’utilizzo del proprio tempo lavorativo. Il proprio ruolo in azienda viene percepito come vuoto, inutile, insignificante».

noia-morire

Le cause? Diverse

La noia può essere generata da fattori differenti. «Un impiego di basso profilo, inferiore alle proprie qualifiche e competenze, di scarso interesse, ripetitivo, oppure una carenza motivazionale per la consapevolezza (reale o presunta) di mancate opportunità di carriera (ruolo e funzioni prospettiche)», spiega Sarno. «Altre possibili ragioni sono il gap tra le mansioni svolte e quelle desiderate, il mancato riconoscimento delle proprie abilità, l’assenza di gratificazioni economiche. Insoddisfazione, demotivazione, senso di frustrazione generano un allontanamento progressivo, sia emotivo sia cognitivo e pratico, rispetto allo svolgimento della propria attività. Tale distacco alimenta un circolo vizioso che genera una crescita del malessere che altera lo stato emotivo in modo più profondo e diffuso. Così la noia diventa tristezza, o peggio depressione, che si espande a macchia d’olio. Fino a minacciare, se non a occupare, aree estese della vita, anche personale, sociale, familiare, di coppia e sessuale».

Problemi intestinali, mal di testa, disturbi del sonno

I primi segnali da tenere d’occhio? Apatia, fatica nel concentrarsi, distrazioni e divagazioni continue. Portare a termine un incarico non procura alcuna gratificazione. Si adocchia in continuazione quello che fanno i vicini di scrivania. Le giornate sembrano infinite e alla sera ci si sente scarichi, nervosi, incompresi. Ci si immagina un lavoro diverso, ma non si fa nulla per cercarlo. Non sono rari i problemi intestinali, i mal di testa, i disturbi del sonno. «Uno studio del 2018 riporta che il 43% delle persone si annoia al lavoro», racconta la sociologa. «Sono soprattutto donne (il 48%, contro il 39% degli uomini). Forse perché il genere femminile è naturalmente più bisognoso di sentirsi utile e valorizzato. I millennials, poi, sembrano avere un rischio doppio e ciò non stupisce. Parliamo di una generazione che lavora per obiettivi e in autonomia. Se mancano questi due elementi, il bore out è dietro l’angolo».

Automazione e disorganizzazione

Conta anche il contesto. «Il rischio oggi è maggiore per via delle condizioni di lavoro diffuse in molte aziende, che non favoriscono la valorizzazione della singola persona», aggiunge Sarno. «A ciò si aggiunge il fatto che l’attività lavorativa oggi occupa estesamente la vita dell’individuo. Riducendo le possibilità di gratificazioni personali nel privato e nel tempo libero». Un problema figlio della nostra epoca iper stressata e iper connessa, dunque, ma che ha radici profonde.

«Pensiamo alla rivoluzione industriale», prosegue lo psicologo. «L’avvento della catena di montaggio ha dato avvio a modalità di svolgimento automatiche che hanno contribuito a una spersonalizzazione e a una disumanizzazione dell’attività lavorativa». È d’accordo D’Ambrosio Marri. «Quella fu davvero una rivoluzione nel modo di concepire l’operato quotidiano. Portato a una semplificazione assoluta dei gesti e alla totale separazione tra attività manuale e intellettuale. L’operaio finì per sentirsi una semplice appendice della macchina. Un po’ come oggi può accadere con i computer, arrivando alla cosiddetta alienazione, la perdita del contatto con il mondo.

Tuttavia oggi, a differenza del Novecento, esistono molte realtà in cui anche i tecnici di medio livello hanno responsabilità di coordinamento e organizzative. A mio avviso, il rischio di vedere dipendenti divorati dalla noia è più alto nelle realtà lavorative in cui manca una buona organizzazione. Ciò può nascondere anche un problema di incapacità gestionale dei manager, spesso percepito come un tabù. Si preferisce far ricadere la colpa su chi sta sotto. Che corre rischi doppi. Da un lato c’è lo stress dei lavoratori schiacciati da una mole impossibile di incarichi, dall’altro quello dei colleghi “non valorizzati“, ma altrettanto capaci».

Chi rischia di più

Prosegue Sarno: «È indubbio che maggiori sono le possibilità di svolgere un’attività ben remunerata e corrispondente ai propri interessi, minori sono le minacce del bore out. Se invece, pur di lavorare, bisogna accontentarsi di svolgere attività sottopagate e non corrispondenti ai propri titoli scolastico-formativi, maggiore è il rischio di un malessere». Ecco perché il problema può colpire soprattutto gli individui iper qualificati e i laureati. Anche i creativi, ingabbiati in attività meccaniche, che non lasciano spazio all’iniziativa personale, sono vittime frequenti.

Chi rischia meno

«Sono invece meno a rischio coloro che operano nell’ambito della cura dell’altro, dal medico all’insegnante. Perché trovano nella relazione continua con l’assistito il senso del proprio operato, da cui traggono soddisfazione», spiega D’Ambrosio Marri. «Questi sono invece bersagli facili del burn out, derivante da ritmi di lavoro insostenibili. Tornando al bore out, è tipico anche dei caratteri molto introversi, propensi a isolarsi, a non relazionarsi con l’entourage lavorativo, perché creano una distanza, sebbene talvolta inconsapevole, tra sé e gli altri che porta colleghi e superiori a “scartarli“ nel momento della suddivisione di compiti e incarichi. Ciò innesca un circolo vizioso, in cui la prolungata inattività acuisce il senso di chiusura emotiva, che a sua volta alimenta la demotivazione».

Un problema sommerso

Il popolo degli impiegati schiacciati dalla noia è più diffuso di quanto si pensi, ma spesso il disturbo fatica a venire alla luce. Se essere stressati per eccesso di lavoro è socialmente accettabile e persino visto come una sorta di merito, un segno di efficienza e produttività, riconoscere di essere sottoutilizzati è motivo di vergogna per la paura di essere additati come pigri, svogliati o inetti. «Si comincia a vergognarsi di essere pagati per non fare niente e ciò suscita ancora più ansia», conferma l’esperta. «Spesso sono i lavoratori stessi i primi a non riconoscere il problema. Non capiscono perché sono così stanchi una volta tornati e a casa e attribuiscono la propria insoddisfazione a conflitti di coppia o a problemi che non hanno niente a che vedere con il lavoro. È difficile capire che il prolungato stand by può invece essere responsabile di un vero malessere».

Le cause giudiziarie sono tanto rare da fare notizia. Nel 2018 un tribunale francese ha condannato un’azienda di profumi a risarcire un ex dipendente, Frédéric Desnard, che aveva accusato il datore di lavoro di averlo trasformato in uno «zombie professionista».

noia-finestra

Come uscirne

Uscirne non è facile, ma è possibile. Parlare è il primo passo. «Non è vero che le situazioni lavorative non possono essere cambiate», continua l’esperta. «Aprirsi con il capo o con il direttore del personale esprimendo il proprio disagio può essere utile. Oltre ad ampliare il più possibile le relazioni dentro e fuori dall’ufficio, cercando di fare “rete“ con persone di differenti mondi e tipologie aziendali. Spesso basta il tempo di un caffè alla macchinetta per sapere cosa si muove in azienda, se ci sono cambiamenti in atto o nuovi progetti per cui proporsi».

È importante anche lavorare su se stessi. La noia non è un sentimento negativo tout court, che va combattuto per forza. Come afferma la psicoterapeuta francese Odile Chabrillac in un saggio sull’argomento, bisogna imparare ad accettare questo stato d’animo, senza cedere alla tentazione di riempire ogni minuto della giornata con azioni concrete e produttive. Cercare di avere aspettative realistiche è un altro consiglio utile. Provare a concentrarsi per un attimo sugli aspetti positivi del proprio impiego, per esempio lo stipendio o la vicinanza a casa. Soprattutto in questo periodo di crisi, è fondamentale sviluppare una certa elasticità e una buona capacità di adattamento.

«Per quanto riguarda invece il tempo trascorso alla scrivania, per abbattere la monotonia consiglio di darsi quotidianamente dei piccoli traguardi da raggiungere», raccomanda la sociologa. «È un modo per allenare la gratificazione personale e far passare più in fretta le giornate. È importante anche cercare di non identificarsi esclusivamente con la propria professione. Non esiste solo il lavoro. Si può, anzi si deve, trarre un senso appagante di realizzazione personale anche da ciò che accade fuori dall’ufficio. Famiglia, amicizie, tempo libero. Anche il volontariato può controbilanciare quel senso di vuoto e inutilità che pervade chi soffre di bore out. Se il vissuto negativo è pesante, sulla base della mia esperienza professionale consiglio un ciclo di counselling con un esperto o un aiuto psicologico specializzato».

 

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