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La salute in alta quota

L'alpinismo fortifica il corpo e lo spirito, insegna a fronteggiare e superare i propri limiti. Ecco le regole da rispettare per evitare e gestire il mal di montagne, e i rischi dell'alta quota.

Quali sono i rischi per la salute di chi pratica alpinismo? Quali regole bisogna osservare ad alta, ma anche a bassa quota? Marco Vergano, specialista in anestesia e rianimazione del reparto di terapia Intensiva dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, risponde a queste domande e fa il punto sui benefici psicofisici dell’alpinismo. Grande appassionato di montagna, ha dato il suo supporto medico a spedizioni alpinistiche extraeuropee ed è in servizio sull’elisoccorso 118 presso la base di Borgosesia.

Mal di montagna. Che cos’è e quali sono i sintomi?

Gruppo San Donato

Il mal di montagna si può verificare già al di sopra dei 2.500 metri di altitudine ed è legato alla minore disponibilità di ossigeno. Più in alto e più velocemente si sale, più è probabile che si verifichi. Può essere di due tipi: lieve o grave. Il primo caso è piuttosto comune e si manifesta in genere quando si affronta l’altitudine senza prima acclimatarsi, come quando ad esempio si sale rapidamente in quota con la funivia, anche solo per una giornata di sci. I sintomi sono cefalea, insonnia, inappetenza, nausea e questi disturbi persistono fintanto che si soggiorna in quota, ma scompaiono non appena si scende. Quando si manifesta, ci si deve mantenere ben idratati, non si deve bere alcol, e per la cefalea può essere utile il paracetamolo. Il mal di montagna severo, invece, consiste in due disturbi molto pericolosi: l’edema cerebrale e l’edema polmonare da alta quota. L’edema cerebrale è insidioso perché può essere scambiato per un mal di montagna lieve. Si avverte uno stato di sopore che costringe a riposarsi, e può capitare di passare dal sonno al coma. L’edema polmonare è più frequente, il liquido nei polmoni è avvertito come fiato corto e gli alpinisti esperti sanno come riconoscerlo. In tutti i casi vige la regola d’oro: scendere rapidamente fino alla scomparsa dei sintomi, ma non sempre è possibile, alle volte si è bloccati in quota da condizioni meteo avverse, oppure è notte e non si può affrontare il rientro. In questi casi si può ricorrere a un trattamento farmacologico

L’acclimatamento, soprattutto ad altitudini elevate, è fondamentale.

Certo. La velocità con la quale si sale è responsabile dei disturbi. Idealmente, per evitare del tutto il mal di montagna, si dovrebbe salire non più di 300 metri al giorno, ma quasi sempre è impossibile rispettare questo limite. Tutti gli alpinisti che ambiscono a raggiungere cime superiori ai 6mila metri, trascorrono parte della spedizione ad acclimatarsi. Questa fase può durare settimane. Dal Campo Base, che si trova a un’altitudine più bassa sotto la cima da raggiungere, fornito di comfort, mezzi di comunicazione e di soccorso (in alcuni Campi base è presente una camera iperbarica portatile), vengono allestiti via via che si sale campi intermedi (campo 1, campo 2 e così fino alla cima). Le salite ai vari campi possono durare anche soltanto una giornata e una notte, per poi ridiscendere al Campo Base. L’acclimatamento è la fase più lunga, quando è completato si aspetta una finestra di bel tempo e si tenta rapidamente la vetta.

Oggi, sempre meno alpinisti, pur affrontando l’alta quota, utilizzano il supporto delle bombole di ossigeno.

Fino agli anni Settanta, e fino a Reinhold Messner, si credeva che fosse impossibile per un essere umano raggiungere cime superiori agli 8mila senza l’ausilio dell’ossigeno. Le imprese di Messner e di molti altri alpinisti hanno dimostrato che, con la preparazione atletica e l’esperienza, un alpinismo puro, non artificiale, che si basa sulle sole forze dell’uomo, proteso a superare i propri limiti, è possibile. Salire un 8mila senza ossigeno è riservato agli atleti e agli alpinisti di punta. Gli altri, che spesso si affidano a spedizioni commerciali sempre più diffuse, fanno uso delle bombole.

Quali sono gli altri rischi dell’alta quota?

I rischi più seri sono legati al freddo. L’ipotermia può causare la morte, ma spesso si va incontro a congelamenti delle estremità come naso, dita e orecchie. Il congelamento può essere di diverso grado: il grado lieve raramente reca danni permanenti, mentre quello più grave porta alla necrosi dei tessuti e alla conseguente amputazione delle parti coinvolte. Non è una rarità, per gli alpinisti hymalaiani, perdere durante una spedizione una o più dita dei piedi. Anche il sole, ad alte quote, può diventare molto pericoloso, provocando ustioni e danni oculari. L’aria rarefatta non protegge dalle radiazioni solari, che vengono amplificate dal riverbero della neve e del ghiaccio. Diventa quindi fondamentale ridurre l’esposizione, usare creme a schermo totale e occhiali adeguati.

E i benefici, per il fisico e lo spirito, di chi pratica alpinismo?

L’alpinismo non è classificabile come uno sport classico, ma va oltre. Richiede forza, resistenza fisica e mentale, un’ottima preparazione atletica di base, attenzione ed esperienza. È una disciplina che impegna a 360 gradi, si affronta la paura, il freddo, lo sfinimento, la sete, la fame. Occorre un grande spirito di adattamento. A differenza di altri sport di endurance, ha sempre una componente di rischio non azzerabile, legata all’ambiente ostile in cui ci si muove, spesso isolato. Il maltempo può trasformare una scalata in un’epopea e rendere impossibili i soccorsi. L’alpinismo fortifica il corpo e lo spirito, si è a contatto con l’immensità e la forza della natura, e insegna a fronteggiare e a superare i propri limiti. È molto utile soprattutto se praticato da adolescenti perché trasmette valori importanti, come il rispetto per l’ambiente e la conoscenza di sé. Per questa ragione, forse, non ha età e dall’Everest alle Dolomiti, non è raro incontrare alpinisti di 75 anni che con la stessa passione di un adolescente, gli occhi rivolti alla cima, non rinunciano alle emozioni che soltanto la montagna sa dare.

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