Salute Mentale

Selfie: autoscatti per costruire la nostra identità

Cosa stiamo facendo ogni volta che scattiamo e postiamo una nostra foto? E il ricorso al selfie può diventare patologico? Risponde lo psicologo Dario Forti

Con un monumento alle spalle, in compagnia degli amici, con un personaggio famoso, dopo una vittoria o dopo una sconfitta. Il selfie, in qualsiasi momento e con chiunque venga scattato, è ormai parte integrante della nostra quotidianità e della nostra esistenza. «Il selfie oggi è strumento di costruzione sociale dell’identità» spiega Dario Forti, psicologo e componente del comitato scientifico della Casa della psicologia. «In una società in cui tutto è sfilacciato, la rete è il luogo in cui si moltiplicano le relazioni e si veicola la propria identità».

La società liquida

La realtà di cui parla l’esperto non è altro che la “società liquida” descritta dal sociologo Zygmunt Bauman: una realtà sempre più frenetica, in cui il soggetto per non sentirsi escluso deve adeguarsi a tutte le abitudini del gruppo. E se il moderno costume sociale è quello del selfie, tutti sono pronti a scattare e a postare foto nel vortice dei social network.

Gruppo San Donato

Il significato del selfie

Ma cosa stiamo facendo davvero ogni volta che scattiamo e postiamo? «Noi costruiamo, come se fosse un’opera d’arte, la nostra immagine e identità. In passato gli artisti lo facevano aggiungendo una sfumatura o un dettaglio al loro ritratto, noi lo facciamo aggiungendo un commento, una foto, un post». L’obiettivo? Quello di rendere la nostra identità definitiva e perfetta, per questo «si postano non più del 10% degli scatti che effettivamente si fanno. Dal punto di vista psicologico è una ricerca spasmodica, frenetica e anche un po’ insicura di se stessi» spiega Forti.

Il ruolo del like

Se prima la rappresentazione di se stessi avveniva in modo passivo, tramite un ritratto o la foto fatta da un’altra persona, oggi la nostra immagine viene filtrata direttamente da noi stessi e il selfie diventa “un dialogo sia intrapsichico che interpsichico” con cui il soggetto cerca di soddisfare se stesso e suscitare emozioni negli altri. «Il “like”, la reazione sociale sulla rete, è quasi un doping per la propria autostima, ma i significati sottesi al “mi piace” possono essere sia di apprezzamento, che di scherno, ironia. Per molti l’importante non è la qualità delle reazioni, ma la quantità».

L’effetto delle critiche

Se per gli adolescenti i “like” su Facebook sono come il cioccolato, la gratificazione ottenuta dalle reazioni positive è proporzionale alla frustrazione se non si ricevono. Non pochi casi di cronaca ci hanno raccontato a cosa può arrivare una ragazza insultata sui social network per un selfie, e quindi un aspetto, non apprezzato dalla rete. «Anche se una persona è fragile e corre il rischio di ricevere delle critiche, sente comunque il bisogno di relazionarsi con gli altri. Lo scontro e gli affronti avanzati dai coetanei sono problemi sempre esistiti, oggi sono solo cambiati gli strumenti e i contesti» spiega lo psicologo.

Il selfie patologico?

Se esiste il rischio che il selfie diventi patologico, ancora non si sa, anche se molte persone ammettono che l’eccesso li porta fuori dalla realtà, in un vortice di ostentazione del sé. «Come tanti fenomeni umani – conclude Forti – anche il selfie ha una doppia natura: è un po’ patologia e un po’ fisiologia. Se però una persona ha bisogno dell’autoscatto per confermare la propria esistenza, allora si entra in un’area preoccupante di sociopatia. Il confine tra abitudine-dipendenza, comunque, riguarda il selfie tanto quanto tantissimi altri nostri gesti quotidiani».

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