Sessualità

Uscire da un periodo depressivo come Colin Farrell

Dall'alimentazione agli psicofarmaci: le cure per superare un momento buio

Fra gli attori di Hollywood serpeggia il male oscuro (guarda la gallery): nel tunnel della depressione sono finiti Colin Farrell, Hugh Laurie, il premio Oscar Halle Berry e il comico Jim Carrey. Solo alcuni esempi di un problema che è davvero democratico. In Italia circa il 6% degli uomini e il 9,5% delle donne presenta nel corso di un anno almeno un episodio nero, in forma più o meno grave. Le persone nel mondo che sono colpite dalla depressione superano i 340 milioni, secondo le stime dello European college of neuropsychopharmacology.
«Depressione è un termine che indica disturbi anche molto diversi fra loro, ma con una serie di sintomi in comune, ben codificati dall’American psychiatric association», spiega lo psichiatra Claudio Mencacci, primario del Fatebenefratelli di Milano. «Si va dalle forme legate a fasi della vita, facilmente superabili, a patologie invalidanti che si protraggono per decine di anni».

L’albero cerebrale rifiorisce
Fino a non molto tempo fa, era difficile trovare un medico che definisse il problema per quello che è: una malattia. Prima si parlava, tutt’al più, di esaurimento nervoso. Adesso non passa giorno senza che i ricercatori scoprano qualche nuovo dettaglio su questo disturbo. E, da qualche anno, si è arrivati addirittura a fotografarlo, tramite la risonanza magnetica e altre apparecchiature sofisticate. I risultati hanno creato qualche sorpresa. «Immaginate un albero, con pochissimi rami e con le fronde meno rigogliose di come dovrebbero essere», dice Mencacci. «Ecco, così sono apparse alcune zone cerebrali nelle persone depresse: una sorta di pianta secca, senza il nutrimento necessario. In particolare si è visto che l’ippocampo (una zona nella parte profonda del cervello associata alla motivazione, alle emozioni, alla memoria e al controllo delle risposte dell’organismo allo stress), può arrivare a rimpicciolirsi del 20% per poi tornare, dopo le cure, alle sue dimensioni normali. Quello che varia è il numero delle sinapsi, cioè dei punti di contatto fra un neurone e l’altro. Insomma, le fronde dell’albero».
Tutto questo accade, in forma diversa, sia per le depressioni maggiori (quelle che hanno un andamento continuativo), sia per singoli episodi.
Le strategie di cura per riportare la primavera nella mente? «Spesso si sente dire che le forme depressive lievi passano con la sola psicoterapia, quelle medie con l’abbinamento di psicoterapia e farmaci, quelle gravi quasi soltanto con i farmaci», spiega Giorgio Racagni, direttore del centro di neurofarmacologia dell’Università degli studi di Milano. «È una visione un po’ schematica, ma per certi aspetti rispecchia la realtà». In ogni caso, le percentuali di successo sono alte, intorno al 70% dei casi. E le forme refrattarie, quelle che non rispondono a nessuna cura, non superano il 15%. In mezzo la zona grigia delle cure che funzionano a metà. Oltre, i rimedi drastici nei casi gravi (come la terapia magnetica transcranica).
Il comico Jim Carrey ha scritto un libro sulla sua depressione, dichiarando che per uscirne ha fatto miracoli una dieta a base di proteine e di verdure. «In effetti, per le forme di entità lieve, è possibile agire anche sullo stile di vita, un po’ come avviene per altre malattie», conferma Mencacci. L’approccio allargato alle cure si muove lungo diverse direzioni.

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LE STRATEGIE PER USCIRE
DALLA DEPRESSIONE
Il cibo
Il sonno
Lo stress
L’attività fisica
I ritmi
La psicoterapia
Gli psicofarmaci

IL CIBO
È opportuno che chi attraversa una fase depressiva integri l’alimentazione con la vitamina B6, presente specie nella carne e nei legumi, e con i cibi che contengono gli acidi grassi omega 3: pesce e olio extravergine d’oliva. Non sono sostanze curative, ma creano un substrato favorevole al buon funzionamento del cervello.

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IL SONNO
«Un elemento da tenere in forte considerazione è il tempo dedicato al dormire», spiega Mencacci. «Molti studi dimostrano che una continua, quotidiana carenza di sonno può diventare un fattore scatenante della depressione, anche se non sono stati chiariti bene i meccanismi biochimici che portano a questo effetto».

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RIDURRE LO STRESS
Le tensioni o le situazioni dolorose inducono le ghiandole surrenali ad aumentare la produzione di glucocorticoidi, come il cortisolo. A loro volta questi ormoni inibiscono una serie di molecole chiamate Bdnf (Brain derived neurotrophic factors), che svolgono un ruolo fondamentale nella formazione delle nuove sinapsi. Insomma, un eccesso di glucocorticoidi tende a far avvizzire l’albero cerebrale. Dunque è importante, nei limiti del possibile, ridurre gli episodi di stress. È vero che esistono situazioni, come un lutto o un incidente, che non si possono modificare e che spesso sono proprio gli elementi scatenanti di un episodio depressivo. Ma esiste anche una componente di stress (in famiglia, in ufficio) che appare arginabile, se ci si mette d’impegno: per esempio, il troppo lavoro o i ritmi martellanti che ci si autoinfliggono.

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L’ATTIVITÀ FISICA
Qualcuno potrà sorridere all’idea che il movimento abbia un potere contro la depressione. «Eppure è proprio così», dice Mencacci. «Una moderata attività fisica anaerobica (corsa leggera, nuoto, bicicletta) produce un effetto di stimolo sulla neurogenesi: sulla creazione, cioè, di nuove sinapsi e dunque sulla trasformazione in alberi rigogliosi delle cellule nervose». L’esercizio induce anche il cervello a secernere endorfine, con effetti positivi.

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I RITMI DI VITA
Cambiamenti continui di abitudini o fusi orari (se si viaggia molto) rappresentano un terreno favorevole per lo sviluppo della depressione, in soggetti predisposti. «Bisogna recuperare un’attenzione antica ai ritmi naturali, per i quali l’organismo è stato programmato, nel corso di migliaia di anni», aggiunge Mencacci. «L’esposizione alla luce, per esempio, ha un ruolo fondamentale che in genere viene trascurato. I raggi solari delle prime ore del mattino, in particolare, lanciano messaggi importanti al cervello: l’occhio li cattura e li trasforma in segnali nervosi, che intervengono poi nella modulazione della melatonina e della serotonina. E non è la stessa cosa esporsi ad altri tipi di luce».

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LA PSICOTERAPIA
Quando tutto questo non basta, per uscire da un periodo di depressione anche leggera si deve intervenire con la psicoterapia. Dalla classica psicoanalisi si è via via passati alle moderne versioni di psicoterapia, come la comportamentale o la cognitiva.
«L’analisi freudiana cerca nell’infanzia le radici dei problemi che si presentano negli anni successivi e riserva un’importanza fondamentale al transfert con lo psichiatra e ai segnali dell’inconscio che provengono dai sogni e da altre vie», spiega Giorgio Rezzonico, direttore della scuola di specializzazione in psichiatria all’Università di Milano Bicocca. «La psicoterapia cognitiva agisce invece molto di più sul modo di pensare del paziente e sul concetto che ha di sé».
La persona è invitata a sperimentarsi all’interno del rapporto con lo psichiatra, considerato sicuro, e a incrementare la sua capacità di autosservazione e di lettura del mondo. Un esempio classico? «Molte donne si convincono, durante la gravidanza e subito dopo il parto, che è necessario essere una madre perfetta e felice, perché così dicono i libri e così raccontano gli amici e i parenti», chiarisce Rezzonico. «Quando invece si accorgono che la realtà non è questa, stanno male e possono scivolare in una forma depressiva. Non riescono ad adattarsi al loro nuovo mondo, ma non si sentono nemmeno giustificate a chiedere aiuto. Tramite la psicoterapia cognitiva è possibile rimodellare questa idea e aiutare la paziente a riprogrammarsi».
Anche il percorso di cura ha una durata più breve: già dopo tre o quattro mesi compaiono gli eventuali effetti positivi. Nel caso di depressioni lievi, si continua, in genere, per altri tre mesi, fino a un anno e mezzo o due al massimo. Ma qualunque sia il tipo di psicoterapia prescelto, i risultati si possono vedere, adesso, nero su bianco, sui monitor della risonanza magnetica e di altre attrezzature diagnostiche. «È vero, per la prima volta sono stati misurati gli effetti fisici anche della psicoterapia, e non solo dei farmaci, sul cervello dei pazienti», conclude Mencacci. «Man mano che passa il tempo, nel caso delle terapie che procedono in modo positivo, l’albero cerebrale ritorna a fiorire. E anche per noi psichiatri, posso assicurarlo, l’emozione che si prova è notevole».

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PSICOFARMACI
«I farmaci non servono quasi a niente», ha annunciato, nel 2008, la rivista PloS Medicine, suscitando la disapprovazione degli specialisti più accreditati. Sul giornale è apparso, in particolare, uno studio di Irving Kirsch della Hull University (Usa), secondo cui l’effetto della fluoxetina (il prozac, cioè) e di medicinali della stessa categoria (paroxetina, venlafaxina, nefazodone) non si discosta molto da quello del placebo.
«Sono sciocchezze», risponde Carlo Altamura, docente di psichiatria all’Università degli studi di Milano. «I ricercatori americani hanno esaminato una casistica non corretta, che comprendeva non soltanto pazienti depressi, ma anche soggetti con disturbi della personalità e di adattamento. In realtà i farmaci svolgono un ruolo fondamentale nella cura della depressione e anzi vengono considerati salvavita, come gli anti ipertensivi o l’insulina. Il loro effetto non può essere messo in discussione. Semmai, vengono prescritti, a volte, in modo sbagliato o eccessivo. Ma, per quella che è la mia esperienza, posso dire che danno un contributo risolutivo in circa otto casi su dieci».
Intanto l’armamentario farmaceutico a disposizione degli psichiatri è sempre più ricco. E lo sarà ancora di più nei prossimi anni, quando arriveranno le molecole in grado di agire direttamente sulla produzione dei Bdnf, i cosiddetti fertilizzanti del cervello. Per ora si usano soprattutto gli Ssri (Selective serotonin reuptake inhibitor): sono molecole che aiutano i neuroni a riutilizzare meglio la serotonina o anche la noradrenalina (e in questo caso si chiamano Snri), oppure la dopamina (Sndi). In effetti, la maggior parte delle forme depressive è accompagnata da uno squilibrio di questi neurotrasmettitori, essenziali ai neuroni per dialogare fra loro.
«Il vero salto di qualità avverrà, però, quando non solo saremo in grado di modulare meglio queste sostanze, ma riusciremo anche a evitare, in partenza, che l’albero cerebrale avvizzisca e trascini con sé una serie di reazioni negative a catena, compreso lo squilibrio della serotonina e delle altre molecole», avverte Racagni. «Bisognerà aspettare ancora un po’».
Paolo Rossi Castelli – OK La salute prima di tutto

Ultimo aggiornamento: 20 giugno 2011

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