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Valvole cardiache: ripararle o sostituirle?

In caso di problemi cardiaci le nuove tecniche consentono una sopravvivenza più lunga. Dall’anuloplastica all’intervento transcatetere, ecco quando sono indicate e come si eseguono

Uno dei pezzi più delicati e suscettibili a guasti del nostro corpo è la valvola mitralica, che regola il passaggio unidirezionale del sangue dall’atrio al ventricolo sinistro affinché venga pompato in tutto l’organismo.

«Questa valvola ha la stessa struttura di un paracadute. Il lembo anteriore e quello posteriore, ancorati a un anello fibroso, sono le due vele a cui il cuore “paracadutista” è legato mediante delle corde tendinee», spiega Michele De Bonis, primario dell’unità di cardiochirurgia delle terapie avanzate e di ricerca dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. «La valvola si può ammalare per diverse cause: per degenerazione legata all’età, per un’infezione, ma anche per effetto della febbre reumatica o di malattie funzionali del cuore, come un infarto o una cardiomiopatia». Può accadere così che i lembi della valvola non chiudano perfettamente, causando rigurgiti via via più gravi che portano a quella che i medici definiscono insufficienza mitralica. In questi casi, la parola d’ordine è riparare.

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Valvole cardiache: chirurgia con circolazione extracorporea  

«La riparazione della valvola è preferibile alla sostituzione perché l’intervento è più sicuro, c’è un minor rischio di infezioni, il cuore si riprende meglio e garantisce una sopravvivenza più lunga», sottolinea De Bonis. La cosa fondamentale è rivolgersi a un professionista. «La riparazione della valvola mitralica è stata spesso definita come una lotteria, perché l’esito varia enormemente in base all’esperienza dell’ospedale che la esegue. Il cardiochirurgo, in questi casi, è come un artigiano, che deve stare a bottega per anni per apprendere e perfezionare la tecnica», aggiunge lo specialista.

La chirurgia a cuore aperto rappresenta ancora la soluzione che garantisce i risultati migliori a lungo termine. Oggi, ricorda De Bonis, «si opta sempre più spesso per l’approccio mininvasivo, che prevede un’incisione più piccola (lunga 4-6 centimetri) praticata sul lato destro del torace. L’intervento prosegue poi in modo tradizionale. Il cuore viene fermato e la circolazione del sangue nel corpo viene garantita attraverso un macchinario esterno, mentre si procede alla riparazione della valvola. L’intervento si conclude dopo circa tre ore con l’anuloplastica, cioè l’applicazione di un anello che stabilizza i lembi della mitrale garantendo un risultato più duraturo».

Sostituzioni delle valvole con protesi biologiche e meccaniche  

Se in sala operatoria si riscontrano difficoltà tecniche, «si può sempre considerare la sostituzione della valvola con una protesi, sebbene in mani esperte questa soluzione debba rappresentare decisamente un’eccezione», spiega il cardiochirurgo.

«Per i pazienti più anziani è meglio la protesi biologica, che richiede di assumere i farmaci anticoagulanti solo per qualche mese. Per i giovani è più indicata la protesi meccanica, che non degenera e resiste per tutta la vita. Ha però un impatto sulla qualità della vita perché rende necessaria una terapia, detta anticoagulante, indispensabile per il funzionamento della protesi».

Le tecniche di intervento transcatetere 

Se questo tipo di operazione rappresenta un rischio troppo alto per il paziente, allora è possibile ricorrere alle tecniche di intervento transcatetere, che permettono di risalire fin dentro il cuore attraverso dei tubicini inseriti nella vena femorale destra. «Così il cuore non dev’essere fermato, non serve la circolazione extracorporea e l’intervento, più facile e veloce, causa meno traumi e complicazioni», sottolinea De Bonis. «Il problema è che in questi casi la riparazione della mitrale non può essere perfezionata con l’anuloplastica e spesso tale soluzione risulta meno efficace e duratura. Un’opzione da valutare solo per pazienti accuratamente selezionati».

Anche la sostituzione di una eventuale protesi biologica impiantata al posto della valvola mitrale che negli anni sia poi degenerata può essere fatta transcatetere, «portando all’interno della protesi malata una nuova protesi biologica che si apre a margherita, ancorandosi tra atrio e ventricolo: questa pratica è piuttosto recente e finora è stata eseguita solo su qualche centinaio di casi al mondo», ricorda il cardiochirurgo.

Piccola incisione sullo sterno 

L’esperienza non manca per la manutenzione di un altro pezzo chiave del cuore, la valvola aortica, che con la sua particolare forma a semiluna controlla il passaggio del sangue dal ventricolo sinistro all’aorta e quindi a tutto il resto del corpo. «La riparazione della valvola è consigliabile nei pazienti giovani sotto i 40 anni che soffrono di insufficienza aortica, generalmente per colpa di una patologia congenita. In questi casi la valvola “perde”, causando la dilatazione del ventricolo e sintomi invalidanti come la mancanza di respiro», afferma Alessandro Castiglioni, primario di cardiochirurgia al San Raffaele.

«L’intervento viene fatto con tecnica mininvasiva, aprendo una piccola incisione verticale sullo sterno. Dopodiché si ferma il cuore, ricorrendo all’ausilio della circolazione extracorporea, e si procede alla riparazione dei lembi della valvola. Il vantaggio, anche in questo caso, è che non serve assumere una terapia anticoagulante a vita».

I vantaggi della TAVI

Discorso a parte per i pazienti più anziani che soffrono invece di stenosi aortica, un «indurimento» della valvola dovuto alla deposizione di calcio che ne impedisce la corretta apertura, causando la mancanza di respiro. La cosa migliore da fare è sostituire la valvola calcificata con una nuova, mediante intervento chirurgico a cuore aperto. «In genere, dopo i 70 anni, si opta per una protesi biologica. Anche se degenera nel giro di 10-15 anni, c’è sempre la possibilità di risostituirla nuovamente attraverso una tecnica transcatetere, chiamata Tavi, che non richiede né di riaprire chirurgicamente il torace, né di fermare il cuore usando la circolazione extracorporea», spiega il primario di cardiochirurgia.

Un’altra importante novità è quella dell’impianto delle nuove valvole senza sutura, che non devono essere «cucite» in modo sartoriale al cuore, ma «vengono semplicemente appoggiate sul vecchio anello fibroso della valvola a cui poi si ancorano da sole, riducendo i tempi dell’intervento a vantaggio del paziente», continua Castiglioni.

Procedura all’avanguardia per l’arco aortico

Per operare il cuore servono mani di fata, soprattutto quando a guastarsi è quella sorta di tubo a gomito che porta il sangue dall’aorta ascendente a quella discendente. «Il cosiddetto arco aortico può dilatarsi pericolosamente fino a rischiare la rottura nel 5-10% dei pazienti che hanno già subito un intervento per riparare la rottura (dissezione) della prima parte dell’aorta ascendente. Può infatti accadere che, col passare degli anni, la porzione del vaso che si trova a valle della riparazione inizi a dilatarsi pericolosamente, rischiando a sua volta di rompersi», ricorda Castiglioni.

«In questi casi è necessario un intervento chirurgico molto delicato, che prevede l’apertura della cavità toracica e la sostituzione del tratto di aorta malato con una protesi sintetica. La procedura comporta un altissimo rischio di mortalità post-operatoria. I pazienti, tra l’altro, possono subire importanti problemi neurologici, come ictus e coma, proprio perché dall’arco aortico partono i vasi carotidei che portano sangue al cervello».

Per superare questa impasse nel trattamento dell’aneurisma dell’arco aortico i medici del San Raffaele hanno messo a punto una nuova tecnica operatoria che riduce in modo significativo i rischi. «L’intervento prevede una prima fase di chirurgia vascolare, che stacca e reimpianta le due carotidi dirette al cervello, e poi una seconda fase di cardiochirurgia, in cui s’impianta un’endoprotesi biocompatibile all’interno dell’aorta discendente e poi la protesi vera e propria, al posto del vaso ascendente», conclude Castiglioni. «Con questa tecnica, unica al mondo, siamo riusciti a minimizzare i rischi neurologici riducendo la mortalità dal 15 all’1-2%».

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