Salute

Patient advocacy, anche in Italia arriva il modello Usa

«Abbiamo vinto la malattia ma il paziente è morto». Per quanto tutti possano capire che si tratta di un motto di spirito non bisogna dimenticare che un fondo di verità c’è. In passato non è stato raro che si parlasse di malattia, e di come sconfiggerla, prestando una attenzione solo marginale ai pazienti e al loro vissuto. Si è guardato alla malattia come a una serie di parametri da riportare nella norma dimenticando di misurare, anche qui in maniera scientifica, la qualità della vita e le loro priorità dei malati. Le cose hanno cominciato a mutare quando questi hanno iniziato ad organizzarsi come soggetti attivi e non solo come oggetti di studio. Negli Usa e nel mondo anglosassone, dove l’abitudine ad agire per gruppi d’interesse e associazioni è più radicata, questo ha portato allo sviluppo della patient advocacy, una modalità di partecipazione dei pazienti a tutto ciò che riguarda la propria malattia, dalla ricerca alla scelta delle terapie, passando per l’impegno in prima persona nei gruppi di supporto. Ora questo modello si sta facendo strada anche in Italia.

«Abbiamo vinto la malattia ma il paziente è morto». Per quanto tutti possano capire che si tratta di un motto di spirito non bisogna dimenticare che un fondo di verità c’è. In passato non è stato raro che si parlasse di malattia, e di come sconfiggerla, prestando una attenzione solo marginale ai pazienti e al loro vissuto. Si è guardato alla malattia come a una serie di parametri da riportare nella norma dimenticando di misurare, anche qui in maniera scientifica, la qualità della vita e le loro priorità dei malati. Le cose hanno cominciato a mutare quando questi hanno iniziato ad organizzarsi come soggetti attivi e non solo come oggetti di studio. Negli Usa e nel mondo anglosassone, dove l’abitudine ad agire per gruppi d’interesse e associazioni è più radicata, questo ha portato allo sviluppo della patient advocacy, una modalità di partecipazione dei pazienti a tutto ciò che riguarda la propria malattia, dalla ricerca alla scelta delle terapie, passando per l’impegno in prima persona nei gruppi di supporto. Ora questo modello si sta facendo strada anche in Italia.

I pazienti affetti da Fibrosi Polmonare Idiopatica (IPF), ad esempio, stanno lavorando per portare da noi questo modello e lo fanno con l’appoggio e il sostegno dei medici. Un esempio è quello delle iniziative che si stanno organizzando per la settimana mondiale della IPF (dal 23 al 30 settembre) alla quale l’Italia per la prima volta partecipa. L’associazione Ama Fuori Dal Buio, guidata dall’instancabile Rosalba Mele, e Luca Richeldi, direttore del Centro per le Malattie Rare del Polmone dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena, parteciperanno infatti al primo evento globale di lancio della Ipf Week (il 22 settembre) dedicando l’attenzione proprio alla Patient Advocacy.

Gruppo San Donato

«Apriremo la settimana con una videoconferenza in diretta da Modena e Denver – ha spiegato Richeldi – alla quale parteciperanno una serie di centri nei vari Paesi Europei e negli Stati Uniti. La conferenza sarà un momento di condivisione per pazienti, familiari, medici e operatori sanitari. Il nostro obiettivo – spiega ancora Richeldi – è quello di realizzare in ogni Centro in cui siano assistiti pazienti con fibrosi polmonare un gruppo di supporto dedicato. Si tratta di un vero e proprio metodo terapeutico, che prevede un supporto alla pari tra pazienti con l’aiuto di un coordinatore».

In questo appuntamento e anche in quello successivo che si terrà il 29 settembre a chiusura della settimana, si discuterà di modelli di buone pratiche, orientamento e supporto di gruppo, modalità di sostegno e la Pulmonary Fibrosis Foundation (PFF), il gruppo americano che ha ideato la settimana, fornirà copie tradotte in francese, tedesco, italiano, spagnolo e portoghese della sua Support Group Leader Guide e sarà anche presentato il documento The New Paradigm of Patient Advocacy Organizations (Il Nuovo Paradigma delle organizzazioni di difesa dei pazienti). Un paradigma che a Modena hanno già cominciato ad utilizzare: a breve proprio questa maggiore attenzione ai benefici percepiti dai pazienti, prima ancora che dai parametri clinici, insieme al loro attivo coinvolgimento, porterà all’avvio di uno studio sulla valutazione dell’efficacia di interventi non farmacologici (come ad esempio la meditazione) nella gestione della malattia, perché, spiega Richeldi «aiutare i pazienti a gestire meglio la loro patologia e i loro sintomi è lo scopo finale del nostro lavoro».

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