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Ci cureremo con le feci?

Il trapianto di microbiota sfrutta la «cacca» di un donatore sano ed è una terapia innovativa che promette di curare molte malattie. Ma da sempre forma, colore e consistenza degli escrementi possono dire molto di noi e del nostro stato di salute. Parlarne, soprattutto con il proprio medico, non dev’essere tabù

Non è proprio come interpretare i fondi del caffè per svelare la propria sorte e, certo, nel guardare la propria cacca c’è ben poco di magico. Ma anche se per il nostro corpo sono un veicolo per espellere fibre non digerite, scarti del metabolismo, proteine, grassi e carcasse di batteri intestinali morti, le feci non sono da considerarsi solo un rifiuto di cui sbarazzarsi tirando lo sciacquone: imparare a «leggerle», lo insegnano i principi base della medicina tradizionale dall’Asia all’Occidente, può svelare importanti informazioni su si sé e sul proprio stato di salute.
Che se ne faccia tanta o poca (la frequenza di evacuazione è individuale), ciò che conta è come si presenta. La cacca perfetta, per i gastroenterologi, esiste: è marrone, compatta, non richiede sforzi nell’espulsione e non ha odore particolarmente cattivo, nei limiti del possibile.

Sono molti i fattori che possono mutarne l’aspetto, prima tra tutti la dieta, così come temporanee alterazioni della flora batterica intestinale, infiammazioni e infezioni, malattie croniche dell’apparato digerente, intolleranze alimentari come la celiachia, stress e fattori psicologici. «Se non ci troviamo di fronte a una diarrea acuta o cronica, feci poco formate spesso non hanno un significato preciso», spiega Mario Guslandi, gastroenterologo e responsabile dell’epato-gastroenterologia clinica dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. «Possono essere semplicemente espressione di un intestino irritabile, con una velocità di passaggio delle feci attraverso il colon che è aumentata rispetto al normale».
La principale funzione di questo tratto è riassorbire acqua dal materiale fecale in formazione: più a lungo le feci rimangono nel colon, maggiore sarà la loro compattezza. «Anche la presenza di muco nelle feci non è motivo di allarme», prosegue Guslandi. «È un materiale prodotto fisiologicamente dall’intestino, quando lo osserviamo a occhio nudo significa che è stato prodotto in eccesso da uno stato irritativo del colon o dell’intestino».

Gruppo San Donato

Dal bianco al nero, passando per giallo, rosso, verde: è il colore delle feci a segnalare con più chiarezza che qualcosa non va. A volte è solo il cibo a dare particolari sfumature, ad esempio verdastre dopo un’abbuffata di clorofilla con lattuga, spinaci, cavoli e alghe, o molto scure dopo aver assaggiato una ricetta al nero di seppia. Alcune tinte estreme, però, devono essere motivo d’allarme. «Un nero carbone è dato da sangue digerito dai succhi gastrici», chiarisce il gastroenterologo. «Si chiama melena, segnala un’emorragia del tratto digerente superiore, per lo più a livello gastro-duodenale, come un’ulcera o una gastrite erosiva accompagnata o meno da malessere e debolezza. Quando sanguina l’intestino, per colite ulcerosa o per la presenza di diverticoli, un polipo o tumore, le feci sono invece completamente rosse o chiazzate di sangue vivo. Erroneamente è scambiato per emorroidi: in questo caso è raro trovare feci rosse, più probabile invece vedere gocce di sangue sulla carta igienica».

A dirottare la scala cromatica è la verde bile, secreta in abbondanza dal fegato e riversata nell’intestino per riassorbire grassi e vitamine, amalgamare le feci. Quando tutto fila liscio è trasformata dai batteri del colon in sali biliari, marroni come il colore che dona alla cacca. «Per questo la diarrea è giallastra, passando velocemente attraverso il colon non dà alla bile il tempo necessario a scurire le feci», prosegue Guslandi. «Quando sono quasi bianche significa che la bile non ha nemmeno raggiunto l’intestino o che era in quantità insufficiente: segnala un problema al fegato o delle vie biliari, di solito accompagnato da urine molto scure e occhio un po’ giallo, l’ittero. Va prontamente segnalato al medico».

Dalle feci è possibile capire anche chi vive nell’apparato digerente. Se gli attuali esami di laboratorio riescono a rilevare solo una manciata di virus e parassiti, causa di disturbi e malattie, dal mondo della ricerca si tenta invece di risalire all’identikit del microbiota intestinale, quei trilioni di batteri, miceti e virus che svolgono attività mutualistiche con l’organismo: l’uomo offre loro dimora stabile e pasti caldi, in cambio i microrganismi mediano per importanti funzioni fisiologiche, dal metabolismo alle difese immunitarie, molte ancora da scoprire. «Alla nascita il corpo umano è completamente sterile», spiega Antonio Gasbarrini, direttore dell’unità operativa di medicina interna e gastroenterologia del Policlinico Gemelli di Roma. «Già al momento del parto si entra in contatto con numerose specie microbiche che vivono in simbiosi con la mamma e che vanno a colonizzare l’apparato digerente del bambino».

Da questa prima popolazione, ognuno svilupperà il suo microbiota personale e nel corso della vita si aggiungeranno altre specie, la cui crescita potrà essere influenzata da molti fattori, alcuni noti come regime alimentare, esposizione alle infezioni, uso di antibiotici. Non condividiamo il cibo e la vita solo con microrganismi «buoni», alcune specie sono patobionti: innocue ma se crescono troppo possono creare guai. Alla base di un’alterata attività digestiva e intestinale vi è spesso una comunità batterica che è proliferata indisturbata e ha finito con il prendere sopravvento sugli altri abitanti dell’intestino. «Nei casi di disbiosi, di origine incerta, possiamo solo supporre che vi sia un’alterazione cronica della flora intestinale», specifica Guslandi, «però nella pratica clinica non abbiamo ancora la possibilità di capire se a una persona mancano batteri “buoni” o ne ha troppi “cattivi”». Aggiunge Gasbarrini: «In linea di principio sappiamo oggi che è possibile scoprirlo: servono però tecniche avanzate, come la mappatura del Dna del microbiota, a disposizione solo di alcuni centri specializzati e non ancora di routine».

Messo sulla bilancia, l’intero microbiota intestinale pesa circa un chilogrammo. Il triplo del cuore, per intenderci, tanto che gli esperti lo considerano ormai al pari di un organo, soprattutto per la sua complessità. Se lo è davvero, perché non provare a trapiantarlo? E, infatti, la ricerca del futuro confida proprio nelle feci di donatori sani: centrifugandole in laboratorio si può ottenere un estratto di batteri «buoni» che può essere reinfuso, tramite sondino naso-gastrico o colonscopia, in un intestino dove uno o più ceppi «cattivi» hanno preso il sopravvento, innescando stati patologici. «Tecnicamente è una terapia proponibile per infezioni batteriche antibiotico-resistenti, tra cui E.coli, salmonella e colera, e molte patologie gastrointestinali croniche come colite ulcerosa, morbo di Crohn, sindrome dell’intestino irritabile», spiega Gasbarrini, che con il suo gruppo guida la ricerca sul trapianto di microbiota in Italia.

L’idea che la flora batterica, interagendo con le cellule del sistema immunitario dell’intestino, possa avere un ruolo chiave anche nelle malattie su base autoimmune si va consolidando e apre nuovi orizzonti terapeutici. «Si pensa di testare il trapianto di microbiota anche per diabete di tipo 2, insulino-resistenze, obesità, sclerosi multipla e autismo», prosegue Gasbarrini. «A oggi, però, è approvato solo come misura salva-vita nella diarrea da Clostridium difficile resistente agli antibiotici, un’infezione gravissima, i pazienti rischiano disidratazione e complicanze anche fatali». L’antibiotico vancomicina, finora unica speranza di trattamento, riesce ad arrestare la diarrea solo in un paziente su cinque e dopo 15 giorni di ricovero ospedaliero.

Con il trapianto di microbiota, invece, il 90% dei pazienti torna a stare bene in 48 ore: lo dimostra lo studio randomizzato del Policlinico Gemelli di Roma, appena pubblicato, interrotto per «eccesso di successo» a metà percorso. «La terapia funziona anche per risolvere pericolose complicanze, a effetti collaterali zero», conclude Gasbarrini. «I batteri ritrapiantati competono con il Clostridium e sembrano produrre batteriochine, antibiotici naturali con effetto del tutto paragonabile a quello dei farmaci».

All’idea di curarsi con la cacca, in molti si tappano il naso. Per altri, invece, è terreno fertile di business. Succede negli Stati Uniti, dove le banche delle feci sono già realtà (ne esistono due), al pari di quelle tradizionali del sangue e dei tessuti.
Da un lato la ricerca scientifica prosegue con rigore, con la messa a punto di pillole a base di escrementi per chi non volesse percorrere la via endoscopica finora utilizzata. Dall’altro fioriscono video-tutorial su YouTube e portali dedicati (gettonato il sito Power of Poop, letteralmente «il potere della pupù») per prepararsi le cure nel bagno di casa e fare dei tentativi, chissà mai che passi il mal di pancia. Dopotutto, spiegano i promotori della cacca-terapia domestica, non serve altro che un frullatore da cucina, dell’acqua, un porta-pranzo di plastica in cui raccogliere le feci di una persona sana, qualche polvere per addensare il tutto, e poi via a riempire un clistere con cui farsi il trapianto casalingo, aiutandosi con un massaggino all’addome.

«Pura follia», dice Gasbarrini. «Come può proteggere, il microbiota può anche causare malattie, comprese neoplasie dell’apparato digerente, soprattutto per la presenza di virus.
La fase più delicata è la selezione del donatore: si fa solo con attento screening di laboratorio, che escluda la possibilità di trasmettere virus o patogeni. Tutta la procedura è oggi codificata per escludere questo rischio».
Anche in Italia non c’è ancora una regolamentazione per il trapianto di microbiota. «È difficile da inquadrare, per l’impiego di batteri, materiale non sterile a differenza degli altri trapianti di cellule e tessuti», conclude Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro Nazionale Trapianti. «I risultati positivi della ricerca ci spingono a una necessaria valutazione, per definire precise misure di prelievo, conservazione e utilizzo. Garantendo così qualità e sicurezza al cittadino».

Con la coprocoltura, l’analisi di un campione di feci, è possibile rintracciare la presenza di germi patogeni nell’intestino, causa di dolori addominali, diarrea e febbre. Salmonella, Shigella e Campylobacter sono i più comuni e ricercati. L’esame delle feci è utile per la diagnosi di specifiche infezioni o epidemie, tra cui E.coli enteroemorragico, vibrione del colera, Yersinia enterocolitica, Helicobacter pylori, Clostridium difficile. Anche i parassiti lasciano tracce nelle feci, uova o larve, come gli ossiuri, i vermi che causano prurito anale nei bambini (vedi box a pagina xxx). Nelle feci è possibile rilevare la presenza di calprotectina fecale, una proteina che segnala infiammazione intestinale. Infine, il sangue occulto: la sua ricerca nelle feci è il primo passo per la prevenzione di polipi e del tumore del colon-retto, da eseguire ogni due anni dopo i 50 anni di età.

di Cinzia Pozzi 

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