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Francesco Maria Galassi: «La guerra del futuro sarà contro i batteri»

Il paleopatologo romagnolo sostiene che fra 30-40 anni molti degli attuali antibiotici non saranno più efficaci

Bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro. È l’insegnamento che ci giunge dal V secolo a.C. per opera dello storico ateniese Tucidide e che oggi più che mai è attuale. Anche per quel che riguarda la medicina, tanto che non a caso lo stesso letterato descrisse l’epidemia di peste che colpì Atene intorno al 430 a.C. Un insegnamento fatto proprio, 2.400 anni dopo, da Francesco Maria Galassi, professione: paleopatologo. Uno studioso delle patologie del passato, in pratica un archeologo delle malattie, oggi 32enne, ma che nel 2017 è stato inserito dalla rivista statunitense Forbes, uno dei magazine più famosi al mondo, tra i trenta scienziati under 30 più influenti d’Europa.

«Sono sempre stato persuaso che l’analisi retrospettiva dei fenomeni sia quanto di più potente disponga la scienza per avvicinarsi alla risposta intorno alle cause prime degli stessi. In una parola al “perché” delle cose», ricorda l’oggi professore associato alla sezione di archeologia della Flinders University (Australia), docente a contratto di antropologia forense presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro e direttore del centro di ricerca internazionale FAPAB Research Center di Avola (Siracusa), dedicato allo studio dei resti umani antichi e moderni. «L’amore per la storia e l’archeologia hanno poi fatto il resto indicandomi la via da seguire. All’epoca quasi tutti la presero come una scelta folle e cercarono di dissuadermi dal farla. Ecco, in quel preciso momento capii che quella era la strada giusta da seguire».

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Professore, la pandemia di Covid-19 ha costituito un brusco risveglio per noi occidentali, all’improvviso ci ha espulsi dalla nostra comfort zone. Eppure, come scrive lei nel suo ultimo libro (Uomini e microbi: l’eterna battaglia, Espress edizioni, 2021), «fenomeni del genere si sono presentati più volte nel passato, affliggendo intere civiltà e popolazioni, ma la nostra generazione ne aveva perso la memoria». Perché siamo diventati smemorati?

«L’uomo è per natura superbo e fenomeni come quelli pandemici contribuiscono a riportarlo con i piedi sulla terra, umiliandolo. Mentre s’ingegna per esplorare e colonizzare altri pianeti, si dimentica di prendersi cura del pianeta che lo ospita e di prevenire minacce colossali quali quella pandemica. Inoltre – anche se questo è soprattutto un problema del nostro tempo – ignora la storia e non si cura di approfondirla. Così, l’uomo è un eterno contemporaneo e viene colto di sorpresa da fenomeni che potrebbe prevenire o da cui potrebbe guardarsi limitando i danni».

Viviamo in un’epoca nella quale, come annota benissimo l’accademico statunitense Tom Nichols ne La conoscenza e i suoi nemici (Luiss University Press, 2018), medici, professori e specialisti vari sono spesso visti dalla gente comune come odiosi sostenitori di un sapere elitario e fondamentalmente inutile. E la colpa non è solo dei social network e di internet, ma anche dei media, dell’università e della politica.

«Tradizionalmente l’accademico vive racchiuso nella propria torre d’avorio, evitando il contatto e l’interazione con il pubblico. Questo è un grave errore, perché è fondamentale comunicare alle persone gli obiettivi, la bontà e i risultati dei propri studi, accorciando la distanza tra università e società civile. Bisogna, però, comunicare bene, in maniera appropriata, altrimenti si rischia di trasformare questo accorciamento di distanze in una catastrofe comunicativa. I social media hanno rivoluzionato il mondo contemporaneo e offrono numerosi vantaggi, tuttavia il loro uso indiscriminato e irrazionale può generare problemi maggiori. Non vorrei essere caustico, ma se per guidare un’automobile è necessaria una patente, perché chiunque è libero di usare indiscriminatamente uno strumento potentissimo come uno smartphone dotato di accesso a social media che lo connettono rapidissimamente a tutto il resto del mondo? Ovviamente non invoco un esame di stato per l’utilizzo dello smartphone o dei social, ma credo che un ragionamento sui comportamenti da tenere in quella sede sia quanto mai urgente».

A proposito di social, lei, socio fondatore del Patto Trasversale per la Scienza, finisce sovente nel mirino dei negazionisti, no-vax e complottisti vari, con i loro interventi sgrammaticati e farciti d’insulti. Una categoria che sta invadendo anche la politica, dal parlamento statunitense a quello italiano. Non esiste una «cura» per loro?

«Si tratta di fenomeni complessi, probabilmente non eradicabili, ma che devono essere contrastati con ogni mezzo comunicativo e giuridico disponibile. Purtroppo, negli ultimi tempi, anche a causa delle numerose aspettative e speranze relativamente alla pandemia, i campi un tempo rigidamente separati si sono rimescolati. Oggi non è infrequente leggere affermazioni un tempo appannaggio di qualche antivaccinista radicale da parte di studiosi rispettabili. Il vero problema è stata l’ansia comunicativa. Molti si sono lanciati in speculazioni in assenza di dati certi, mentre una maggiore prudenza sarebbe stata preferibile. Una volta che si comunica in malo modo, è difficile porvi rimedio. Quest’ultima pandemia deve insegnarci l’importanza non solo di riscoprire il passato delle malattie infettive per comprendere le tragedie del presente, ma deve sottolineare anche l’urgenza di introdurre un’etichetta comunicativa consona alla situazione».

Persino Luc Montagnier, Premio Nobel per la medicina per aver scoperto il virus dell’HIV, si è avvicinato alle tesi cospirazioniste.

«Gli uomini, anche i più dotti, finiscono sovente per sacrificare la ragione sull’altare della loro immaginazione».

Del resto, dibattito sui vaccini a parte, nella pandemia in corso la classe medica non ha dato un grande esempio, con liti stile reality show tra virologi & co. in televisione e sui giornali, con uno a sostenere una tesi e l’altro l’opposta. A chi credere?

«A chi è più cauto, moderato nei toni e più coerente con la propria analisi alla luce dei dati emersi. Certo, affermare socraticamente di non sapere non porta al clamore mediatico di affermazioni nette e roboanti, ma in tempo di crisi la cautela è la migliore guida. Quanto alle polemiche tra esperti, va detto che, per quanto sgradevoli, inutili e nocive, sono di livello amatoriale se comparate a quelle del passato. Girolamo Mercuriale (medico e docente universitario vissuto tra il Cinquecento e l’inizio del Seicento, ndr) e Rudolf Virchow (lo scienziato tedesco ottocentesco autore della dottrina della patologia cellulare, ndr) docent».

Lei ha vissuto all’estero, soprattutto in Svizzera, ma con periodi di ricerca anche in Olanda e Regno Unito. Sul suo profilo Facebook ha sostenuto che all’Italia per sollevarsi dalla crisi servirebbe un Mark Rutte, il premier olandese che non si è mai dimostrato troppo tenero con noi italiani. In che senso?

«Le nazioni anglo-teutoniche, che piacciano o meno, hanno un approccio diverso al rigore, alle regole e ai sacrifici. All’Italia mancano spesso queste qualità – che, per carità, esistono anche presso di noi, ma non vengono opportunamente premiate e valorizzate – e manca soprattutto compattezza interna. Come popolo, riusciamo spesso più belli che pratici, qualcosa che solo vivendo all’estero possiamo meglio comprendere. Potremmo avventurarci in una dissertazione storico-politica sul tema, ma, in ossequio a quella stessa cautela sopra invocata, giova cedere il passo a chi ha maggiori competenze sul tema».

Qual è il Paese che sta gestendo meglio l’emergenza?

«L’Australia. Senza dubbio. Lo dico a prescindere dal conflitto d’interesse di appartenere a una università australiana (Flinders). Chiusura totale, senza deroghe e tentennamenti, e massimo rigore sin da subito».

A quale epidemia del passato si può maggiormente paragonare l’attuale?

«Molto difficile fare un paragone. Vi sono elementi in comune con la Spagnola, ma non totali. Il problema maggiore di questi paragoni è l’assenza di contestualizzazione. L’impatto di una malattia infettiva su una società va valutato alla luce di fattori chiave quali le condizioni igienico-sanitarie e alimentari generali, le conoscenze e tecnologie mediche del periodo storico in questione, la presenza o meno di altre sciagure (guerre, carestie, disastri naturali…). Purtroppo, anche nella florida saggistica storico-medica i paragoni si sprecano pur non considerando questi elementi, il che è, a mio modesto avviso, un grave errore metodologico. È un po’ come chiedere: “Un ascesso dentale è una grave condizione medica?”. Nella Milano del 2021 è per lo più un fastidioso contrattempo che ci porta a spendere tempo (e danaro) dal dentista, tempo che vorremmo dedicare ad altro. Nella Milano al tempo di Napoleone poteva essere una banalissima causa di morte, in assenza di antibiotici. Il contesto storico è tutto».

Quali suggerimenti tratti dalla Storia della medicina sono stati seguiti e quali no nel cercare di contenere la diffusione del Sars-CoV-2?

«Riscoprire il valore del distanziamento fisico, della quarantena e del tracciamento. Da evitare, invece, tanto in passato quanto oggi, la ricerca spasmodica e irrazionale di soluzioni (troppo) rapide a problemi complessi».

L’unica malattia infettiva veramente eradicata è il vaiolo. Lei recentemente ha messo in guardia dalla sifilide; quali altre patologie che arrivano dal passato possono costituire un rischio ai giorni nostri?

«In questa fase il nostro focus è sulla lotta ai virus. Fra 30-40 anni, dovremo, ahinoi, occuparci dei batteri, allorché molti degli antibiotici a nostra disposizione non saranno più efficaci. Mentre la guerra virale è in pieno corso, la mente corre inevitabilmente alla guerra batterica che arriverà fra qualche decade».

Quindi saranno i batteri i grandi nemici che dovremo affrontare nel futuro…

«Il nemico principale, temo, sarà la nostra arroganza come specie nel considerarci invincibili dopo che saremo usciti da questa crisi generale. S’ignoreranno nuovamente le malattie infettive dopo qualche anno e l’attenzione tornerà solo sui temi delle malattie croniche. Non trovarci nuovamente impreparati sarà la vera sfida».

Quest’anno ricorrono i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, pare per malaria dovuta alla puntura di una zanzara.

«Pare per malaria, anche se non ci sono certezze definitive e altre ipotesi sono state formulate. Non sarebbe stato disprezzabile un riesame dei resti mortali custoditi a Ravenna, ma bisogna capire le situazioni e il contesto pandemico. Il ritorno della malaria è uno scenario attualmente allo studio degli esperti in relazione al surriscaldamento globale. Le malattie infettive rappresenteranno una sfida per la medicina del futuro, come fu in passato».

Ma quanto tempo occorre veramente per rendere innocua una patologia trasmissibile? La peste nera, per esempio, è durata secoli. 

«Difficile fare previsioni cronologiche raffinate sui tempi di adattamento di un patogeno a una popolazione ospite. Oltremodo azzardate quelle su di un suo rabbonimento, come la storia recente ha insegnato. Diciamo che i tempi saranno modulati da quanto saremo bravi a vaccinare velocemente la popolazione e a contenerci nelle interazioni fisiche».

L’età media della vita umana si sta allungando grazie agli enormi progressi della scienza medica negli ultimi anni. Ma morire più tardi vorrà dire anche vivere più sani?

«Superati i 30-35 anni di età o poco più, l’organismo umano ha (o dovrebbe aver) espletato la propria funzione biologica. I segni di degenerazione articolare incominciano a manifestarsi e il decadimento fisico prende piede. Siamo in sostanza dei sopravvissuti, un prodotto inaspettato della nostra tecnica e delle nostre arti che ci hanno permesso di soggiogare la natura e di lanciare una sorta di sfida all’evoluzione e al tempo. È fondamentale vivere in maniera sana per conservare al meglio questo dono e sfruttare il tempo concessoci per edificare ulteriormente l’edificio della cultura, processo che segue logiche diverse da quelle delle crude leggi biologiche».

Qual è stata la scoperta più sorprendente nella sua attività di paleopatologo?

«Il primo caso di ictus nella storia della paleopatologia, in una mummia naturale della metà del Settecento, combinando dati anatomici, radiologici e archivistici. Una descrizione completa del fenotipo di una malattia oggi al primo posto tra le cause di morte tra le malattie cardiovascolari».

Il termine paleopatologia è stato coniato a metà Ottocento. A che punto è oggi questa disciplina scientifica in Italia, in confronto con il resto del mondo?

«La paleopatologia in Italia gode di punte di eccellenza, ma difetta di sistematicità e collegialità, valori che le hanno fatto fare, invece, un salto qualitativo nel mondo anglosassone. Qui spesso ci si perde in fatue polemiche e si cura molto il proprio orticello, invece di ragionare a un livello più alto. Personalmente, ho sempre avuto altre aspirazioni e un’altra visione, visione che cerco di mettere in pratica quotidianamente con il mio lavoro e che cerco di trasmettere ai miei collaboratori. Penso questa sia la via per portare la materia ad alto livello disciplinare, più che collazionando una serie di “colpi a effetto” o studi spettacolari. Solo di recente il mio centro di ricerca siciliano (FAPAB Research Center) ha fondato una rivista scientifica, Acta Palaeomedica. International Journal of Palaeomedicine, l’unica attualmente attiva in Europa dedicata esclusivamente a questi studi. C’è margine di crescita per tutto il settore, ma ovviamente solo il tempo potrà dire chi ha avuto ragione».

Marco Ronchetto

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