BenessereConsigli

La mia vita in alta quota

"A un certo punto della mia vita è scattato come un interruttore e tutta la mia attenzione si è rivolta all’alta quota, come una malattia, una dolce, bellissima, estrema malattia" racconta l'alpinista Cala Cimenti reduce dalla conquista del monte Pobeda.

Emozioni, paure, obiettivi, allenamenti e problemi di salute. L’alpinista Carlalberto “Cala” Cimenti, 39 anni, le racconta in questa intervista, di ritorno dalla conquista della cima del monte Pobeda, altitudine 7,439 metri, nella regione del Kirzighistan, la più pericolosa delle cinque montagne over settemila dell’ex Urss.

 

Con il primato del monte Pobeda (in russo Picco della Vittoria), il progetto Snow Leopard è quasi in dirittura di arrivo…

Gruppo San Donato

Con il Pobeda ho aggiunto il quarto, importante tassello al conseguimento di questa onorificenza che nessun italiano ha mai ottenuto (raggiungere tutte e cinque le vette sopra i settemila metri dell’ex Unione Sovietica). Ora mi manca soltanto il Communism Peak, in Tajikistan, che proverò a scalare nell’estate 2015. Pur essendo molto alta (7,495 metri di altezza) è più facile del Pobeda e mi piacerebbe che la sua scalata fosse un po’ come una festa, affrontata in compagnia di amici e goduta in ogni suo metro di salita e discesa. Vedremo più in là, dietro l’angolo mi aspetta un’intera stagione invernale di freeride.

Sci alpinismo over settemila: chiamarlo sport è riduttivo, possiamo dire che si tratta di una filosofia (sportiva) di vita?

Sì, possiamo dirlo: lo sci è il mio sport preferito, salire montagne immacolate e cercare pendii remoti accessibili a pochi, dona sensazioni ed emozioni molto intense e profonde. Sopra i 5mila metri, poi, si aggiungono il confronto con sé stessi, il sacrificio, la sofferenza e, a volte, l’accettazione della rinuncia. Le emozioni entrano dentro di te in modo profondo, viscerale, arricchendoti ogni volta, ma ogni volta cambiandoti.

La situazione più pericolosa che ha dovuto gestire?

Sul Dhaulaghiri nel 2009. Di ritorno al campo 1 a 5,400 metri, mentre iniziava a nevicare: la nostra tenda non c’era più, sommersa da quattro metri di neve. Abbiamo iniziato a scavare, la zona era molto crepacciata, visibilità zero, stava venendo buio ed eravamo senza lampade frontali e senza indumenti pesanti. Per fortuna, dopo un po’, la pala ha cozzato contro un palo della tenda, rotta e inservibile, ma abbiamo potuto utilizzare il sacco a pelo e il resto del materiale. Abbiamo passato la notte in una truna di neve, cioè in una caverna scavata nella neve.

E a livello fisico?

Durante il trekking di ritorno dal Manaslu nel 2008, ho contratto la meningite a causa di un virus. Sono riuscito a tornare in Italia per farmi curare, però, proprio mentre stavo guarendo dalla meningite, dato che non ero stato sottoposto a nessuna cura anticoagulante e a causa dell’allettamento prolungato, mi è venuta un’embolia polmonare massiva bilaterale, così sono stato trasferito in rianimazione e mi hanno salvato per miracolo. Quest’anno ho dovuto affrontare un’altra emergenza quando, dopo la mia cima del Pobeda, a 6900 metri il mio compagno di scalata si è sentito male con un inizio di edema polmonare. Siamo dovuti partire alle 5 del mattino e scendere il più velocemente possibile. Per fortuna è andato tutto bene.

Quale tipo di allenamento affronta per prepararsi a una scalata?

Pratico tutti i giorni, a seconda della stagione, trail running, mountain bike, sci alpinismo o sci di fondo. Questi sport servono ad allenare la capacità aerobica, poi scalo su roccia e su ghiacciaio, affronto goulotte e mi piace lo sci ripido. L’allenamento fisico, per scalare in alta quota, è importante, ma è altrettanto fondamentale la componente psicologica: sentirsi sicuri e a proprio agio in quella dimensione aiuta a dispendere meno energie, e poi bisogna essere predisposti a sopportare le privazioni, il freddo, e a gestire situazioni estreme. Anche questo aspetto si può e si deve allenare.

Che cos' è, per lei, la paura? E la fatica?

La paura è una costante in una spedizione d’alta quota, è un’alleata preziosa che ti aiuta a restare vivo. Durante una scalata arriva sempre il momento in cui devi percorrere tratti esposti a pericoli oggettivi, come la caduta di seracchi e valanghe, l’arrivo di una tempesta improvvisa, o il cedimento di un ponte su di un crepaccio, e provare paura ti aiuta a tenere le antenne dritte, a riportare a casa la pelle. Anche la fatica è sempre presente e alle volte ti sembra che quel momento non passi mai, poi alla fine scorgi la tenda, o la cima, e la soddisfazione, il sollievo, la felicità sono impagabili.

L’alpinismo richiede una dose di sana “follia”, ma anche sangue freddo per gestire gli imprevisti.

Sicuramente per affrontare certe situazioni bisogna essere un po’ pazzi, però occorre sempre essere lucidi per gestire i pericoli con freddezza e con la consapevolezza di quello che si fa e dei propri limiti. L’esperienza poi è fondamentale: ogni volta che vado in montagna imparo qualcosa e ogni volta che torno da una spedizione mi sento più ricco. È molto importante, secondo me, scalare con gente più esperta e avere sempre l’umiltà e la voglia di imparare.

La sua particolarità è di utilizzare gli sci, dove possibile, sia in salita sia in discesa. Il fisico è penalizzato?

Utilizzare gli sci in salita vuol dire trasportare dai tre ai cinque chili in più rispetto a un alpinista tradizionale, ma in alcune situazioni è molto più sicuro, come l’attraversamento in solitaria di ghiacciai crepacciati, e molto più vantaggioso in termini di fatica, come nel caso di pendii con neve fresca e profonda: puoi galleggiare sulla neve utilizzando le pelli di foca, mentre gli altri sprofondano fino alla vita. In discesa, invece, si risparmia tempo e sudore. Purtroppo, la maggior parte delle volte si fa molta fatica, al pari se non di più, di un alpinista che scende a piedi, con i ramponi.

La prima vetta e la prossima cima.

La prima, significativa volta è stata a tredici anni, con mio fratello e mio padre, accompagnati da una guida alpina, il mitico Girodo, in cima al Monte Bianco. Non mi ricordo particolari emozioni quando eravamo in vetta, mentre non ho più dimenticato le ultime, interminabili ore di discesa per arrivare al treno che ci avrebbe riportato a Chamonix, con i piedi in fiamme e tanta sete. I miei progetti futuri dovrebbero passare dal Makalu e poi appunto dal Communism Peak.

Alpinisti d’alta quota si nasce o si diventa?

Devi nascere con una predisposizione alla ricerca di certe emozioni, alla voglia di confrontarti con nuovi limiti e poi cercare di superarli. Io sono stato aiutato dalla mia famiglia, in particolar modo da mio padre che fin da piccolo mi ha abituato a viaggiare e insegnato ad apprezzare questo tipo di esperienze. A un certo punto della mia vita è scattato come un interruttore e tutta la mia attenzione si è rivolta all’alta quota, come una malattia, una dolce, bellissima, estrema malattia.

Eliana Canova

 

Mostra di più
Pulsante per tornare all'inizio