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Massimo Giletti: da bambino portavo il busto per la scoliosi

Il giornalista racconta a OK gli anni della sua infanzia alle prese con il corsetto per la schiena con una grave curvatura. L'ha "raddrizzato" la fisioterapia

Massimo Giletti, 50 anni, da bambino ha dovuto portare il corsetto per correggere la sua grave scoliosi. Ecco la confessione del giornalista e conduttore di L’Arena (RaiUno) a OK Salute e benessere di maggio.

«Una curva vistosa della mia colonna vertebrale: questo nota all’improvviso mia madre facendomi il consueto bagno della sera, nella nostra grande casa di campagna immersa nei boschi del biellese. Ho appena cinque anni, sono un bambino sereno e vivace, che ama correre e giocare all’aperto. Quella curva preoccupa la mamma, che mi porta immediatamente dal primario di ortopedia di un ospedale torinese.

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Ricordo ancora quell’edificio vecchio e triste. Freddo come la sentenza che lo specialista butta lì senza mezzi termini, e a dire il vero senza neppure troppo tatto: “Questo bambino non starà in piedi da solo ancora a lungo“. Scopro così di essere affetto da una gravissima forma di scoliosi, insolita in un bimbo piccolo: in genere il rischio arriva un po’ più tardi, con l’età dello sviluppo.

I miei coetanei mi deridevano, soffrivo
L’unica soluzione sembra l’intervento chirurgico, a quell’epoca lungo e rischioso. Mia madre non ne ha alcuna intenzione. Opta invece per un centro fisioterapico specializzato di Ginevra, presso l’Hôpital Gourgas. Neppure lì mi danno grandi speranze, ma mi sottopongono a intense sedute di ginnastica specifica. Io, con la leggerezza tipica di un bimbo, trovo perfino divertenti quei continui spostamenti settimanali: vado all’estero e passo sotto al tunnel del Monte Bianco, che mi affascina ogni volta.

Va così fino ai dieci anni, quando i ripetuti controlli evidenziano che la sola fisioterapia non basta più: la scoliosi non peggiora, ma neppure regredisce. E una curvatura di 50 gradi è davvero troppo. Occorre abbinare un busto ortopedico, detto milwaukee, una sorta di terrificante armatura che mi imprigiona fino a sotto il mento e che devo portarmi addosso tutto il giorno, per un intero anno. È il primo trauma.

A farmi male sono soprattutto gli sguardi interrogativi degli altri bimbi, che mi vedono diverso e ne soffro, anche se cerco di resistere e reagire. Il dolore inevitabilmente rende più forti, ma anche più sensibili. Il passo successivo è più semplice: un nuovo corsetto meno visibile e invasivo, che non sale più fino al collo ma copre interamente il busto. Il regalo da parte dei miei coetanei? Il soprannome “uomo plastica”.

Decido di non lasciarmi più condizionare: vado in palestra, gioco a calcio, non rinuncio neppure alla spiaggia né alle gite scolastiche, nonostante abbia sempre bisogno dell’aiuto del mio compagno di banco per mettere e togliere il busto. Non voglio più sentirmi diverso, desidero riappropriarmi della mia normalità.

Ma poi arrivano i busti di gesso, che mi costringono, questa volta, a trasferirmi a Ginevra per sei mesi: periodicamente me li cambiano, poi ci sono sempre gli esercizi riabilitativi, le trazioni e quant’altro. È di nuovo difficile. Trascorro il tempo tra la compagnia di uno scoiattolo, in giardino, e le partite delle Juve in tv, e soprattutto studiando per non perdere l’anno scolastico, il quarto ginnasio, cosa che mi riesce.

Ma quando l’ennesimo controllo rivela la necessità di rimettere il corsetto fino almeno ai 18 anni, non ce la faccio. In pratica, mentre porto i busti vari miglioro, ma non appena interrompo torno a incurvarmi. Non ne posso più.

Da un giorno all’altro mi sbarazzo letteralmente dei busti. Mi iscrivo a un corso di nuoto e decido di fidarmi della particolare tecnica di una fisioterapista torinese, Margherita, da effettuare con un’attrezzatura ideata da lei. Si tratta di agire intensamente con le braccia su due leve, in modo da rinforzare i muscoli della schiena rimettendola in equilibrio. Tre volte a settimana lo facciamo insieme, gli altri giorni a casa da solo. Beh, la curva si è ridotta a circa trenta gradi e da allora sono rimasto stabile.

Oggi, guardandomi, non si direbbe che la mia colonna sia tutt’altro che diritta. Eppure, ho finalmente trovato il mio equilibrio… Faccio molto sport, soprattutto calcio e tennis, ho rinunciato solo allo sci. Raramente ho qualche attacco di mal di schiena, soprattutto durante lunghi viaggi in auto, che però passa in fretta. Tanto che non ho nemmeno più voluto effettuare un controllo o una radiografia. Quello che invece continuo a fare sono 15 minuti al giorno di esercizi a casa, con quel miracoloso macchinario senza nome di Margherita (che purtroppo è scomparsa alcuni anni fa). Ho battezzato l’attrezzatura “Arcobaleno”. Perché mi ha finalmente permesso di tornare a vedere la vita a colori».

Massimo Giletti (confessione raccolta da Grazia Garlando per OK Salute e benessere di maggio 2013)

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