Alimentazione

Odi il formaggio? È scritto nel tuo dna

Da cosa nasce il disgusto per caciotte e mozzarelle, che colpisce tante persone? È una questione di geni, spiega lo psicologo

Focus di Emanuel Mian (puoi chiedergli un consulto), psicologo referente all’Istituto nazionale di chirurgia dell’obesità (Inco) dell’Istituto Sant’Ambrogio di Milano.

A tutti sarà capitato di avere un familiare o un amico che ha una repulsione per il formaggio. Questo disgusto riguarda gli uomini e soprattutto le donne, ed è presente in molti bambini, specie nei confronti dei latticini dal sapore deciso, come il gorgonzola o il taleggio. Nella maggioranza dei casi, i piccoli imparano con gli anni ad accettarne il gusto, mentre in età adulta è difficile superare l’avversione per il cacio. Ma perché alcune persone odiano così tanto grana & co? Intolleranza? No, non si sta parlando di un’incapacità di digerire il lattosio, che è un altro problema (leggi: cos’è e come si cura l’intolleranza al lattosio).

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UN DISGUSTO INNATO. Il gradimento o il disgusto nei confronti dei vari alimenti possono avere una base genetica e può trattarsi, dunque, anche di una predisposizione ereditaria, di dna. La percezione di un sapore come quello del formaggio è gestita da molti geni, almeno 30. Ogni gene, fra l’altro, può presentare molte varianti, che portano a differenze molto marcate tra una persona e l’altra. E può essere questo il motivo per cui alcuni adorano il gusto del formaggio e altri lo detestano.

L’EDUCAZIONE. Inizia nel grembo il condizionamento del gusto, nel senso che i sapori della dieta materna raggiungono il liquido amniotico, parzialmente deglutito dal feto, e continua nell’infanzia. È stato dimostrato che i pasti in famiglia influenzano le scelte future di gusto. Traduzione: se papà non mangia il formaggio, magari per emulazione non lo farà neanche il figlio.

L’AUTOREGOLAZIONE. Secondo una teoria, l’avversione nei confronti di un alimento, durante la crescita, può anche essere dettata da fattori biologici, cioè dalla cosiddetta sazietà sensoriale specifica, una sorta di autoregolazione dell’organismo che, quando quel cibo viene assunto in gran quantità, spinge a ricercarne altri per soddisfare tutti i fabbisogni nutrizionali. Il bambino, in altri termini, potrebbe rifiutare i secondi a base di formaggio perché il suo corpo ha più bisogno di carne o di pesce. Come devono comportarsi i genitori? È consigliabile lasciare una certa libertà di scelta degli alimenti e non insistere se si manifesta un’avversione nei confronti di alcuni cibi, che può anche essere temporanea.

LA FOBIA ALIMENTARE. L’idiosincrasia per il formaggio può anche rientrare nelle fobie alimentari, ossia una repulsione verso un cibo, che spinge a evitarne qualunque tipo di contatto: mangiarlo, vederlo, toccarlo, sentirne l’odore. L’odio si affievolisce magari quando l’alimento non è pienamente percepito: per questo alcuni tollerano il formaggio se mascherato nelle varie pietanze e accettano la mozzarella, diversa dai latticini per forma e profumo. Da che nasce la fobia? A volte dal disgusto, innato o indotto, nel senso che è tale il rifiuto di quel sapore da non tollerare l’idea di vedere a tavola la caciotta. Oppure da un episodio a cui è collegato il formaggio, un evento negativo o addirittura traumatico al quale la psiche lo associa da quel momento. Per esempio, essere stati obbligati da piccoli a finire il taleggio quando si era sazi. In genere non mangiare i formaggi non è un problema per la salute, se si assorbono i nutrienti necessari da altri cibi. Nei casi rarissimi in cui la fobia è tale da condizionare la quotidianità, si pensa a un percorso di psicoterapia del comportamento alimentare, meglio se a indirizzo cognitivo-comportamentale.
Emanuel Mian, psicologo referente all’Istituto nazionale di chirurgia dell’obesità (Inco) dell’Istituto Sant’Ambrogio di Milano

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