
Secondo un’indagine di Gallup, circa la metà della forza lavoro globale mostra segni di disimpegno latente. Tradotto in numeri: 438 miliardi di dollari di perdita di produttività ogni anno. «Il quiet cracking descrive lavoratori che continuano a ottenere risultati ma che, silenziosamente, devono gestire stress, ansia e demotivazione», spiega Ryne Sherman, Chief Science Officer di Hogan Assessments. A differenza delle dimissioni, dove l’allontanamento è intenzionale e consapevole, in questa situazione le performance restano buone, ma la salute mentale è già in sofferenza».
In pratica, il dipendente “funziona”, ma ha smesso di sentirsi parte di un progetto. Il senso di scopo si indebolisce, il coinvolgimento emotivo si spegne, e cresce il rischio di un collasso psicologico.
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La sindrome della “rana bollita”
Molti esperti descrivono il quiet cracking come la condizione della “rana bollita”, cioè chi resta immerso nel proprio tepore professionale, abituandosi lentamente al disagio, finché la temperatura non diventa insopportabile. «Le persone si adattano a contesti lavorativi che non le soddisfano più per paura del cambiamento o per necessità economiche», spiega Marco Vigini, vicepresidente dell’Associazione Italiana Direzione del Personale (AIDP). Ma questo atteggiamento di resistenza silenziosa può però trasformarsi in un lento logoramento psicologico».
L’identikit di chi è più esposto al quiet cracking
I più esposti? Gli over 45, chi ha una famiglia da mantenere o un mutuo sulle spalle, ma anche molte donne caregiver, spesso schiacciate tra lavoro, figli e genitori anziani. In queste situazioni, il quiet cracking diventa un vero e proprio limbo emotivo: non si trova la forza — o la possibilità — di mollare, ma nemmeno si riesce più a vivere bene. Si resta, giorno dopo giorno, in un equilibrio precario tra senso del dovere e logoramento interiore.
Quiet cracking e quiet quitting: due facce della stessa crisi
Se il quiet quitting è un atto di autoprotezione, il quiet cracking è un cedimento. Nel primo caso, si sceglie consapevolmente di fare il minimo necessario per salvaguardare se stessi; nel secondo, si continua a dare tutto finché non ci si “rompe” dentro. Entrambi, però, raccontano la stessa storia: un mondo del lavoro che chiede troppo e restituisce poco. Un contesto che non ascolta i segnali di malessere e in cui la cultura della performance prevale sul benessere.
I segnali del quiet cracking
Riconoscerlo in tempo è fondamentale. Tra i campanelli d’allarme più frequenti:
- calo dell’entusiasmo e della motivazione;
- difficoltà di concentrazione e stanchezza cronica;
- insonnia o disturbi psicosomatici;
- distacco emotivo da colleghi e progetti;
- partecipazione ridotta durante riunioni o attività di gruppo.
«Un dipendente può continuare a essere produttivo anche quando è già emotivamente esausto», avverte Sherman. È proprio questa apparente normalità che rende il quiet cracking così pericoloso.
Come prevenire la “rottura silenziosa”
Per le aziende, il quiet cracking rappresenta una mina invisibile: colpisce la produttività e mina la cultura interna. Secondo gli esperti, per evitarlo servono cinque azioni concrete:
- Investire nella crescita professionale
Creare percorsi di sviluppo e piani di carriera chiari restituisce senso e prospettiva ai lavoratori. - Formare leader empatici
I manager devono saper ascoltare, dare feedback costruttivi e riconoscere i segnali di stress nel team. - Allineare valori e motivazioni
Quando ciò che motiva il dipendente non coincide con ciò che l’azienda valorizza, nasce il disimpegno. - Monitorare il benessere in modo continuo
Non bastano i report di produttività: servono sondaggi, colloqui, momenti di ascolto reale. - Creare spazi sicuri di dialogo
Parlare del proprio disagio deve essere possibile senza paura di giudizi o ripercussioni.
Come trovare il coraggio di cambiare
Riconoscere di non essere più motivati non è un fallimento, ma un atto di consapevolezza. Chi vive il quiet cracking può iniziare con piccoli passi: fare un “check” delle proprie competenze, investire in reskilling, coltivare relazioni professionali sane, ma anche dedicarsi ad attività extralavorative che riattivano l’energia e la fiducia in sé. «Cambiare si può, anzi a volte è un dovere verso se stessi. Nessuno dovrebbe vivere una vita professionale fatta solo di resistenza: il lavoro deve far crescere, non consumare», conclude Vigini.



