Salute

Quanta plastica rischiamo di “mangiare” ogni giorno?

La scienza non ha dubbi: mangiamo e beviamo le sostanze chimiche usate per produrre gli oggetti che accompagnano la nostra vita quotidiana. Ma ancora non si conoscono gli effetti sul nostro organismo

Plastica nel piatto

Quello che si supponeva, ora la scienza lo dice senza ombra di dubbio. A tavola mangiamo e beviamo anche plastica. Gli studiosi della Heriot-Watt University di Edimburgo (Scozia) hanno calcolato che in un pasto principale dalla durata di una ventina di minuti rischiamo di ingurgitare inconsapevolmente circa 114 particelle di materiale plastico.

Tracce di microplastiche

A conferma è arrivato uno studio preliminare della Medical University di Vienna e della Environment Agency Austria. I ricercatori hanno monitorato dieta e abitudini di otto cittadini tra i 33 e i 65 anni di diversi Paesi del Vecchio Continente (tra cui un italiano). Qui hanno rinvenuto nelle loro feci microplastiche. Frammenti piccolissimi, di larghezza inferiore ai 5 millimetri, che possono formarsi «in seguito al deterioramento accidentale di pezzi di plastica più grandi, compresi i tessuti sintetici. Oppure possono essere fabbricati e aggiunti intenzionalmente a determinati prodotti per uno scopo specifico. L’esempio classico è quello dei granuli esfolianti negli omonimi preparati per il corpo e per il viso.

Gruppo San Donato

Una volta rilasciati nell’ambiente, tali frammenti possono accumularsi nell’organismo di animali, come pesci e crostacei, e di conseguenza essere ingeriti anche dai consumatori sotto forma di cibo».

150 milioni di tonnellate in mare 

«Sono diversi gli studi che attestano come la maggior parte delle specie viventi che abitano in acqua siano contaminate da microplastiche». Interviene così il gastroenterologo Gabriele Capurso, responsabile Ricerca clinica Unità endoscopia bilio-pancreatica ed ecoendoscopia dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. «Pesci, ma anche mammiferi come le balene e, soprattutto, molluschi. La cozza è una vera “spugna” di tutto quanto c’è in mare».

Le cifre dell’inquinamento giustificano l’allarme rosso. «Sono 150 milioni le tonnellate di plastica che si stima “navighino” nei mari». A  sottolinearlo è Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima). «Se nulla dovesse cambiare, entro il 2050 si arriverebbe ad avere più plastica che pesci nell’oceano».

L’acqua potabile non è più sicura

Secondo le analisi effettuate dalla State University of New York a Fredonia (Usa) nel 93% delle acque minerali imbottigliate sono presenti particelle di plastica. Sulle 259 bottiglie di 11 marche comprate in nove Paesi sono state rinvenute in ogni litro mediamente dieci particelle delle dimensioni di 100 micron (0,1 millimetri) e 325 sotto i 100 micron. La plastica più presente è risultata essere il polipropilene, usata per la produzione dei tappi.

Le microplastiche, però, sgorgano anche dai rubinetti. Lo si legge nel dossier Invisibles: The Plastic Inside Us, datato 2017. Gli esperti hanno testato 159 campioni di acqua potabile da mezzo litro provenienti da 14 Paesi di diverse zone del globo, Italia compresa. È risultato positivo l’83% dei campioni, compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti.

New York e Quito navigano nelle stesse acque

Né fanno testo le differenze geografiche ed economiche. Il numero delle microscopiche fibre di plastica trovate nei bagni del ristorante Trump Grill della Trump Tower è risultato essere uguale di quello dei campioni prelevato nella capitale dell’Ecuador, Quito.

Tra le possibili cause d’inquinamento:

  • gli indumenti sintetici (stando ai ricercatori inglesi dell’Università di Plymouth, emettono fino a 700mila microfibre a lavaggio),
  • l’aria (uno studio del 2015 ha evidenziato come a Parigi, ogni anno, arrivino al suolo, e quindi anche nelle acque, fra le tre e le dieci tonnellate di microplastiche),
  • la cosmesi (le microperle presenti nello scrub).

Anche il sale contiene microplastica

Il sale non è immune, e non solo quello marino. Una recente ricerca scientifica, sorta dalla collaborazione tra Greenpeace e l’Università di Incheon (Corea del Sud) ha preso in esame 39 campioni di sale marino, di miniera e di lago, provenienti da diverse nazioni tra le quali l’Italia. Trentasei di questi, compresi i tre nostrani (due di tipo marino e uno di miniera), sono risultati contaminati da microplastica costituita da polietilene, polipropilene e polietilene tereftalato (Pet), usate per la produzione d’imballaggi usa e getta.

La plastica per alimenti

C’è infine il grande capitolo della plastica per alimenti: dalle bottiglie ai sacchetti per la congelazione, dai piatti ai bicchieri, dal packaging al bollitore. «La plastica per alimenti non è un materiale inerte: rilascia sostanze chimiche», sottolinea Spisni. «Molto dipende dall’uso che ne facciamo. Il livello di microplastiche, per esempio, si alza in maniera rilevante quando riutilizziamo plastiche monouso o esponiamo gli oggetti ai raggi ultravioletti (le bottiglie lasciate al sole) e al calore (versare il caffè o il tè in bicchierini non adatti alle alte temperature)», con anche il tempo di permanenza che ha un suo peso. Del resto basta il semplice passare proprio del tempo per alterare la struttura, favorendo il rilascio».

Bevande gasate in bottiglia tra le più contaminate

Il mensile per consumatori il Salvagente ha fatto analizzare dai laboratori del Gruppo Maurizi 18 bottiglie dei principali marchi mondiali di soft drink. Tutte quante sono risultate contaminate, da un minimo di 0,89 a un massimo di 18,89 microparticelle per litro. «La quantità maggiore», commenta Capurso, «è stata rilevata nelle bevande più gasate. Questo potrebbe dipendere dal minidanno che le bollicine ad alta pressione possono causare sulle pareti del contenitore quando vengono imbottigliate».

Mancano studi sugli effetti sulla salute

Accertato che le microplastiche fanno parte della nostra alimentazione quotidiana, il vero interrogativo è se tali particelle siano pericolose per la nostra salute. La realtà è che non lo sappiamo: non sono mai stati effettuati studi sull’uomo. «Sono studi difficili da realizzare», motiva la lacuna il fisiologo della nutrizione. «Bisognerebbe, prima, capire il livello di esposizione a tali sostanze delle diverse popolazioni. Poi, eventualmente studiarle dal punto di vista delle differenti incidenze di alcune patologie. Non è semplice separare l’effetto delle microplastiche da quello di altri inquinanti ambientali presenti in un determinato territorio».

Al momento ricerche solo sugli animali 

Inoltre, suggerisce il gastroenterologo, «gli studi dovrebbero essere condotti a livello autoptico. È una pratica oggi desueta rispetto a 150 anni fa. Oppure gli esperti devono usare campioni oggetto di analisi magari per altri motivi, per esempio in seguito a interventi chirurgici a causa di qualche malattia». Così abbiamo a disposizione solamente ricerche su animali, soprattutto quelli marini, ma anche mammiferi di piccola taglia come i topi.

PP e PET i residui più comuni

Un ulteriore elemento di difficoltà nello studiare gli effetti delle plastiche nella catena alimentare umana è che esistono diverse varietà di tale materia. Nella citata ricerca viennese i due tipi di residui più comuni sono stati quelli di:

  1. polipropilene (PP, utilizzato nelle bottiglie non trasparenti e per le vaschette per alimenti con coperchio),
  2. polietilene tereftalato (PET, con cui vengono realizzate bottiglie e recipienti trasparenti).

Il pericolo interferenti endocrini

Sicuramente pericolosi sono, invece, «quei composti utilizzati per conferire alcune caratteristiche di flessibilità o durezza alla plastica che hanno anche caratteristiche di interferenti endocrini (IE). Sono sostanze in grado di interferire con il sistema endocrino causando effetti avversi nell’organismo». Lo puntualizza Cinzia La Rocca, tossicologa dell’Istituto superiore di sanità. «Tra le famiglie di queste sostanze largamente impiegate ci sono:

  • i bisfenoli, soprattutto il BPA (bisfenolo A),
  • gli ftalati (DEHP), che si trovano anche nei materiali a contatto con gli alimenti».

Non essendo legati chimicamente alla plastica, questi plasticizzanti possono migrare agli alimenti o all’ambiente ed entrare nel nostro organismo, causando seri danni. «Molti studi», prosegue l’esperta, «indicano che DEHP e BPA possono essere associati all’aumento di rischio per:

  • la disfunzione del sistema riproduttivo e della tiroide,
  • l’alterata attività del sistema immunitario,
  • le disfunzioni metaboliche e l’obesità,
  • i disordini nello sviluppo neuro-comportamentale».

L’utilizzo degli interferenti è vietato o limitato

E, se da un lato è vero che dal 2009 è vietato l’utilizzo del BPA nei biberon ed è fissato un limite massimo di migrazione dello stesso bisfenolo A e del DEHP dai contenitori agli alimenti, dall’altro il progetto europeo Life Persuaded (lifp.iss.it), coordinato proprio da Cinzia La Rocca, «ha verificato attraverso uno studio di biomonitoraggio che la popolazione di bambini, adolescenti e delle loro madri è costantemente esposta a questi composti». In particolare, i livelli più alti di ftalati e bisfenolo A riscontrati sono stati associati all’utilizzo di plastica monouso (bicchieri, piatti) e di contenitori in plastica nel microonde. Gli interferenti endocrini in generale sono particolarmente nocivi durante la gravidanza. Il feto, a causa della fase di sviluppo, è in assoluto il più esposto agli effetti negativi.

Plastica nel corpo umano: ancora un mistero

Il problema, in effetti, non è la presenza di microplastiche nelle feci. «Sono le meno pericolose, in quanto sono state espulse dal nostro corpo», prosegue il professore dell’ateneo bolognese. «Sono quelle che eventualmente restano all’interno a far scattare l’allarme». In realtà, proprio per la mancanza di test sull’uomo, evidenzia da parte sua Capurso, «non sappiamo se realmente la plastica venga anche assorbita dal nostro organismo attraverso il canale sanguigno e il sistema linfatico. È verosimile che tali particelle, se di piccolissime dimensione (sui 130 micron), possano migrare al di fuori del canale digestivo anche nell’uomo. A oggi non c’è però la certezza che, anche qualora si depositino in un organo bersaglio, possano provocare danni».

Rischiano di alterare il microbioma

Resta il fatto che a oggi mancano evidenze scientifiche. «Nelle trote del Tennessee, negli Usa», esemplifica Capurso, «è stata trovata una quantità rilevante di microplastiche. Non è mai stato dimostrato che questo sia stato causa di morte o, comunque, dell’insorgenza di tumori. Nel mare, poi, sono le macroplastiche a uccidere la fauna. I delfini muoiono perché mangiano buste di plastica scambiandole per pesci».

Dagli stessi modelli animali emerge, invece, come «le microplastiche che transitano nel tubo digestivo lo danneggino, aumentandone la permeabilità ai batterie alle sostanze da loro prodotte, le tossine», dice il gastroenterologo. «E portando, così, all’alterazione del microbioma, cioè a quell’insieme di batteri, protozoi, virus e funghi che vive nel corpo e che contribuisce a mantenere il benessere di tutto l’organismo. Una modifica che potenzialmente potrebbe associarsi al rischio di malattie autoimmuni, intestinali o neurologiche e di tumori».

Come comportarsi a tavola: pesce

A questo punto, anche se al momento è solamente «intuitivo» il fatto che le microplastiche ingerite attraverso gli alimenti possano provocare danni, il consumatore si pone due legittime domande.

La prima: è ancora valido il consiglio medico di mangiare pesce, visto che è contaminato? Il gastroenterologo non se la sente di porre limitazioni a fronte di «solide evidenze scientifiche sul fatto che abbatte il rischio di diverse malattie. È un cibo sicuramente più salutare rispetto a tanti altri, a partire dalle carni lavorate». Il fisiologo della nutrizione, invece, invita a «non esagerare nel consumo, dato che il pesce inizia a essere molto inquinato anche da metalli pesanti. Lo European Food Safety Authority, Efsa, consiglia di limitare il consumo dei grossi predatori, come squali, pesce spada, luccio, tonno e nasello, ma per il contenuto di metilmercurio. L’ottimale sarebbe mangiarne due volte a settimana, facendo attenzione ai molluschi, veri “raccoglitori” di sostanze inquinanti».

Come comportarsi a tavola: acqua

La seconda: come bisogna comportarsi con l’acqua, visto che è un alimento vitale? «È preferibile scegliere bottiglie di vetro con acqua presa da fonti in alta quota», risponde Spisni. «La microplastiche sono prodotte dall’attività umana. Quindi, a 2.800 metri di altitudine, per esempio, l’inquinamento antropico è minore».
Per una soluzione totale del problema, invece, esiste un solo modo: smettere d’inquinare, facendo ricorso al vetro.

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