Salute

Due identità, un solo uomo

Nella sindrome da personalità multipla è come se due piloti si alternassero al comando dello stesso cervello

La storia può essere raccontata così. Un serial killer che terrorizza la città, dopo aver sgozzato l’ennesima prostituta, rientra a casa e mette a letto i figli. L’indomani apprende dai giornali, sbigottito, della scia di sangue che si allunga.
Oppure così. Un tranquillo padre di famiglia esce una sera al mese con la scusa di un poker con gli amici, invece va a cercare la prostituta giusta. Quando la trova, la abborda e le taglia la gola per il semplice gusto di farlo. Poi rientra a casa, nasconde i vestiti e va a letto maledicendosi.

Per gli psichiatri è disturbo dissociativo d’identità
Il protagonista è lo stesso, come in un film. È reale, come la cronaca insegna. Ed è malato, come la scienza spiega: è affetto da sindrome della personalità multipla, quella che gli psichiatri preferiscono chiamare disturbo dissociativo di identità. «Nel suo corpo convivono due personalità diverse che hanno nomi diversi, parlano con voci diverse, rispondono a desideri diversi», spiega Camillo Loriedo, responsabile del Centro per i disturbi della condotta alimentare dell’Università La Sapienza di Roma.

Gruppo San Donato

Un unico contenitore umano per due identità. Che possono essere anche tre, quattro o più. Può accadere che l’una non sappia nulla dell’altra, altre volte invece queste individualità frammentate si conoscono benissimo e arrivano persino a litigare tra loro. Due o più piloti che si alternano, si accapigliano o si nascondono dietro i comandi dello stesso cervello.

Sembra fantascienza, ma non lo è. Sembra un mistero e, per certi versi, lo è: la sindrome della personalità multipla si presenta infatti agli occhi degli studiosi con molti lati oscuri. La trasformazione, l’uomo e il suo doppio, il buio della mente. Temi affascinanti come le camere segrete della psiche non possono non essere preziose fonti di ispirazione per scrittori e cineasti.

Nel romanzone Dietro lo specchio (Sperling & Kupfer), Sidney Sheldon conduce la sua protagonista, dal passato irreprensibile, nel gorgo di una serie di agghiaccianti delitti a sfondo sessuale e affronta il tema del disturbo dissociativo anche nei risvolti processuali.

Norman Bates, il celebre personaggio interpretato da Anthony Perkins nel capolavoro di Alfred Hitchcock Psycho, ha una malattia che non è invenzione cinematografica, ma che esiste davvero. Anche se l’immagine che soprattutto il cinema ci dà del disturbo dissociativo di identità è quantomeno parziale. Di solito presenta i casi più gravi, quelli degli assassini seriali.

La diagnosi è difficile
In realtà, i contorni della patologia sono quasi sempre molto più sfumati, con gradazioni intermedie che nulla hanno a che fare con dottor Jekyll e mister Hyde.

E per questo possono sfuggire facilmente all’attenzione di amici e familiari. Il disturbo dissociativo di identità non è molto diffuso: riguarda il 2% di tutte le malattie psichiatriche e in generale colpisce meno dell’1 della popolazione, anche se non esistono stime ufficiali attendibili. Si manifesta dopo i trent’anni, ma le cause vanno cercate nel periodo infantile.

Colpisce in nove casi su dieci le donne, anche se probabilmente il dato maschile è sottostimato. La diagnosi è tutt’altro che facile: dopo i sintomi iniziali possono volerci anche quattro o cinque anni di malattia prima che i familiari o l’individuo colpito si rendano conto della presenza del disturbo. Anche lo specialista può avere difficoltà a riconoscere il problema.

La difficoltà dell’accertamento medico è dovuta soprattutto al fatto che quando queste persone ritornano in sé, spesso non ricordano cosa hanno fatto mentre si trovavano sotto il controllo dell’altra personalità. A volte l’identità primaria, così si chiama in termini scientifici, avverte solo alcuni vuoti di memoria. È come se avesse un sentore delle altre, ma niente più. E poi la trasformazione non è controllabile: può avvenire in qualsiasi momento.

Utile il diario quotidiano
Si rivela utile, in molti casi, tenere un diario quotidiano. Mettere nero su bianco emozioni e pensieri permette, a posteriori, di controllare se c’è stato, per esempio, un vuoto di memoria. Oppure consente di scoprire se la personalità che ha scritto una pagina del diario non è quella principale: oltre al mutare dei contenuti, si osserva di solito anche un cambiamento netto di grafia.

Le modalità di passaggio da una personalità all’altra variano. A volte tutto accade con rapidità e senza campanelli d’ allarme. Di solito però questa trasformazione è accompagnata da un malessere fisico: ansia, nausea, mal di testa, febbre, irritabilità. Alcuni riescono addirittura ad avvisare familiari e amici della metamorfosi in corso, con frasi tipo: “Sento che sta arrivando…”. In ogni caso, le invasioni di campo delle altre personalità durano da pochi minuti a qualche ora.

In origine traumi infantili
Sulle cause non ci sono molti dubbi: all’origine c’ è quasi sempre un trauma vissuto in età infantile. Che può essere un abuso sessuale, una violenza fisica, ma anche l’aver vissuto da testimone drammatiche esperienze come un incidente d’auto o il fallimento delle relazioni familiari. Eventi traumatici che vengono accantonati in un angolo del cervello.

Il ricordo, inaccettabile per la mente del bambino, anziché essere rimosso o rielaborato, è relegato in un’area della psiche separata dal resto. La dissociazione arriva come un meccanismo di difesa, che consente di andare avanti creando una barriera tra quello che si vuole conservare e ciò che è meglio escludere dalla coscienza. Non a caso la molla che fa scattare il cambiamento di personalità può essere una nuova esperienza traumatica o qualcosa che la ricordi, come un’emozione intensa, una lite o un film che racconta un evento simile a quello vissuto.

L’aiuto della videocamera
Come si racconta nei thriller, uno strumento efficace per uscirne è la psicoterapia, specie quella ipnotica: consente di scoprire le diverse identità frammentate, e ricucirle in un’unica tela. Un processo lungo e per niente semplice. L’ipnosi funziona a patto che sia condotta da un esperto e che, prima di ricorrervi, si sia instaurato un solido rapporto di fiducia tra terapeuta e paziente. Altrimenti si corre il rischio di riproporre una relazione simile a quella di abuso e di far vivere due volte il dramma, con conseguenze anche gravi. In alcuni casi, quando le diverse personalità non si conoscono tra loro, si può ricorrere alla videocamera.

Il paziente, filmato mentre è preda di un’altra identità, verrà messo a conoscenza del suo lato ignoto, per avviare un processo di integrazione tra lui e lo straniero che abita nella sua psiche. Anche la videoterapia va usata dopo aver stabilito una relazione di fiducia. All’ipnosi si affianca spesso una psicoterapia di tipo cognitivo, che serve soprattutto per correggere le convinzioni sbagliate che possono essersi stratificate nella mente del malato, in particolare quelle che riguardano le relazioni con altre persone.

Infine i farmaci: qualche risultato si è ottenuto con gli antidepressivi, ma per contenere le frequenti tendenze autodistruttive piuttosto che per risolvere la patologia in atto.

Il caso di Annamaria Franzoni
Il buono e il cattivo, il timido e il temerario che convivono in modo così drammatico in alcuni dei personaggi di celluloide, il più delle volte sono solo la raffigurazione dei riflessi di una psiche circondata da specchi deformanti. La realtà ci mette di fronte a casi controversi come quello di Anna Maria Franzoni, condannata con sentenza definitiva a 16 anni per l’assassinio del figlio Samuele e dipinta dai periti dell’accusa come “una donna capace di provare dolore, ma incapace di descrivere l’accaduto perché lo ha rimosso”.

La realtà ha carne e sangue, meno contrasti stridenti e infinite variabili. La realtà non ha copioni da rispettare.

Massimo Barberi – OK La salute prima di tutto

Ultimo aggiornamento: 25 ottobre 2010

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