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Artrite reumatoide: è cambiato il modo di curarla

Dalla progressività crescente dei dosaggi dei farmaci si è passati a quella decrescente. E i risultati si vedono

La casa va a fuoco. Non si sa cosa abbia scatenato l’incendio, ma tendaggi e tappeti del salotto hanno iniziato a bruciare. Cosa fate in questo caso? Provate a controllare la situazione con qualche secchiata d’acqua qua e là, almeno finché le fiamme non iniziano ad attaccare le stanze vicine, oppure chiamate i vigili del fuoco per spegnere tutto il prima possibile? Domanda surreale, certo. In questa situazione saremmo tutti già pronti con il telefono in mano per chiamare i soccorsi. E allora perché non fare lo stesso quando a «bruciare» sono le nostre articolazioni? Perché accontentarsi di controllare i sintomi dell’artrite reumatoide, se oggi ci sono i mezzi per spegnerla nel giro di pochi mesi?

L’evoluzione della terapia

«In questi ultimi anni l’approccio terapeutico alla malattia è cambiato radicalmente», spiega Lorenzo Dagna, primario dell’unità di immunologia, reumatologia, allergologia e malattie rare all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. «Se in passato l’infiammazione veniva trattata in maniera progressiva, ricorrendo a farmaci via via più forti in caso di peggioramento dei sintomi, ora l’indicazione è di aggredirla fin dalle fasi più precoci. Studi scientifici dimostrano che, se interveniamo in maniera decisa entro i primi tre-sei mesi, possiamo cambiare nettamente il decorso della malattia. Possiamo spegnerla subito o metterla a tacere per un tempo più lungo. Una volta scomparsi i sintomi e ottenuta la remissione, si può diminuire l’intensità di cura fino a usare i farmaci al minimo dosaggio possibile».

Gruppo San Donato

Le parole invalidità e deformità sembrano quindi destinate a scomparire dal vocabolario dei pazienti. «Non bisogna arrendersi all’idea di convivere con queste condizioni. Non sono più accettabili, non con gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione», sottolinea il reumatologo.

I progressi della scienza

Tutto merito della ricerca che ogni giorno fa passi avanti, anche grazie al contributo degli scienziati italiani. Come quelli delle università di Genova e Verona, che unendo le forze hanno recentemente scoperto una molecola dal nome complicatissimo (Rna non codificante RP11-498C9.15) che modula l’espressione dei nostri geni controllando l’insorgenza e le manifestazioni cliniche dell’artrite reumatoide. «Conosciamo sempre meglio i meccanismi di attivazione della malattia che portano il sistema immunitario ad attaccare le articolazioni», ricorda Dagna.

«Abbiamo capito che i sintomi come il dolore e la rigidità non sono dovuti solo al danno articolare. Ma anche all’azione delle stesse molecole infiammatorie, che abbassano la soglia del dolore e favoriscono altre malattie come l’osteoporosi. Le cause dell’artrite reumatoide, però, sono ancora tutte da chiarire». Quello che sappiamo è che nasce dalla somma di più fattori. C’è sicuramente la predisposizione genetica, che è come un covone di paglia pronto a bruciare; poi c’è la scintilla innescata da uno o più fattori esterni, come il fumo di sigaretta oppure infezioni del cavo orale.

Rigidità articolare al risveglio

«In Italia l’artrite reumatoide colpisce all’incirca una persona su cento», precisa il medico del San Raffaele. «Chiunque può sviluppare la malattia, ma il paziente tipo è solitamente donna e ha un’età compresa fra i 30 e i 60 anni». Il primo campanello d’allarme suona al mattino. È la rigidità delle articolazioni, che al risveglio sembrano fatte di legno e poi impiegano diverse ore per «sciogliersi» e riconquistare la libertà di movimento. A questo disturbo si possono poi aggiungere altri due sintomi chiave: il dolore e il gonfiore.

Le articolazioni più colpite sono soprattutto quelle piccole della mano e delle dita. Ma problemi insorgono spesso pure a livello di gomiti, ginocchia, spalle, caviglie e anche. Con il passare del tempo le attività quotidiane più banali diventano una vera impresa. Si possono avere difficoltà a scrivere, aprire una bottiglia, lavarsi e vestirsi. «Se il problema è solo la rigidità articolare al mattino ed essa è comparsa da pochi giorni si possono provare i farmaci antinfiammatori non steroidei, i cosiddetti Fans, che agiscono sui sintomi ma non sulle cause della malattia», spiega Dagna. Se compaiono dolore e gonfiore o se la rigidità è persistente, però, non si può più temporeggiare. Bisogna rivolgersi a uno specialista per fare quanto prima gli esami del caso.

Basta un esame del sangue

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Per inquadrare la situazione, del resto, basta un semplice prelievo di sangue. «Si vanno ad analizzare valori specifici come il fattore reumatoide e gli anticorpi anti-citrullina, che permettono di confermare la diagnosi di artrite reumatoide. Poi si misurano Ves e proteina C reattiva, per valutare l’entità dell’infiammazione», ricorda lo specialista. Spesso si misura anche il livello di vitamina D nel sangue, importante per la salute del sistema immunitario e per il rischio di osteoporosi. Soprattutto nelle donne vicine alla menopausa. Infine, per decidere il miglior trattamento, «si valutano le transaminasi del fegato, l’emocromo con i globuli bianchi e si fa la ricerca per i virus delle epatiti B e C e il bacillo della tubercolosi», aggiunge Dagna. «Un’eventuale presenza di questi agenti patogeni, infatti, obbligherebbe a maggiori attenzioni nell’uso dei farmaci immunosoppressori».

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Per fortuna esiste un’ampia varietà di «estintori» per spegnere l’incendio delle articolazioni. In primis, c’è il caro vecchio cortisone. Anche se non è in grado di frenare la degenerazione delle articolazioni, come ricorda lo specialista, «il cortisone esercita un’azione antinfiammatoria. Se usato per brevi periodi e a basso dosaggio, in combinazione con altri farmaci per l’artrite, può facilitare la risoluzione del problema». Lo si può prendere con il metotrexato, il farmaco di prima scelta nella cura dell’artrite reumatoide, che agisce modulando il sistema immunitario per ridurne l’aggressività contro le articolazioni.

«Il farmaco va assunto una volta alla settimana con un’iniezione sottocutanea che il paziente può farsi da solo a casa propria», spiega Dagna. «Il dosaggio è basso e per questo molto sicuro. Non bisogna spaventarsi leggendo gli effetti collaterali riportati nel foglietto illustrativo, perché si manifestano per lo più a dosaggi molto elevati, come quelli usati nella cura dei tumori». Per i pochi pazienti che non lo dovessero tollerare, c’è sempre l’alternativa del leflunomide, un altro immunosoppressore da assumere per bocca una volta al giorno.

Farmaci biologici sperimentati
anche contro il coronavirus

Se il paziente non dovesse rispondere al trattamento entro tre mesi, si può scegliere se aumentare la dose degli immunosoppressori oppure passare direttamente alla terapie di seconda linea: i cosiddetti farmaci biologici. «Sono anticorpi monoclonali, prodotti in laboratorio grazie all’ingegneria genetica, che servono a calmare il sistema immunitario “arrabbiato” bloccando cellule o molecole coinvolte nella risposta infiammatoria», afferma Dagna. «Agiscono in maniera più potente rispetto agli immunosoppressori e perciò vanno usati con particolare attenzione, perché comportano un rischio maggiore di sviluppare infezioni».

I primi ad arrivare sul mercato sono stati gli inibitori del TNF-alfa, come etanercept, infliximab e adalimumab. Poi è stato il turno degli inibitori dell’interleuchina 6 come tocilizumab e sarilumab, sperimentati in questi ultimi mesi perfino contro Covid-19. Infine gli anticorpi come rituximab, diretto contro l’antigene CD20 presente sui linfociti B, e abatacept, che interferisce con l’azione dei linfociti T. «Tranne il rituximab, che deve essere somministrato per endovena in ospedale, tutti gli altri farmaci biologici possono essere assunti a domicilio con una semplice iniezione sottocutanea», rileva il reumatologo. «Grazie a queste terapie la vita dei pazienti è notevolmente migliorata. La maggior parte di loro riesce a ottenere la remissione dell’artrite».

Le nuove molecole selettive

Esiste però ancora una fetta non trascurabile di casi in cui il trattamento con uno o più farmaci fallisce. Per questi l’ultima novità è rappresentata dalle piccole molecole, prodotte per sintesi chimica in laboratorio e dotate di un meccanismo d’azione estremamente selettivo. Proprio in virtù delle loro piccole dimensioni, queste molecole non restano all’esterno delle cellule come gli anticorpi monoclonali. Bensì riescono a entrare per inibire dall’interno quei meccanismi che innescano la produzione di sostanze infiammatorie. Oltre ad avere un’azione che in alcuni casi pare anche più potente di quella dei farmaci biologici, le piccole molecole offrono anche il vantaggio di una somministrazione più facile, per via orale. Possono essere impiegate sia dopo che il methotrexate ha fallito sia a seguito di una mancata efficacia di farmaci biologici. «Al momento sono due i prodotti disponibili sul mercato, tofacitinib e baricitinib, ma tantissimi altri stanno per arrivare», afferma Dagna.

L’importanza del movimento

Qualsiasi sia la terapia prescritta, è fondamentale assumerla in maniera continuata, aderendo con scrupolo alle indicazioni del medico: purtroppo quattro pazienti su dieci ancora non lo fanno, stando ai dati emersi dall’ultimo congresso della Società italiana di reumatologia (SIR) a Rimini. Secondo gli esperti, poi, solo il 20% degli italiani con malattie reumatiche pratica regolarmente attività fisica. Un dato preoccupante, perché la sedentarietà può deteriorare non solo le articolazioni, ma anche lo stato di salute generale dell’organismo. «Sappiamo che l’infiammazione associata all’artrite reumatoide è un fattore di rischio per la salute cardiovascolare. Per questo negli anni Ottanta la mortalità dei pazienti era addirittura paragonabile a quella dei malati di linfoma», ricorda Dagna.

Ancora oggi chi soffre di artrite ha una probabilità doppia di essere colpito da un problema cardiovascolare rispetto alla popolazione generale, secondo quanto emerso dallo studio Carré (Cardiovascular research and Rheumatoid arthritis) condotto seguendo 350 pazienti per 15 anni. «La raccomandazione che diamo ai pazienti di tutte le età è quella di continuare a fare attività fisica costante», ammonisce lo specialista. «L’ideale sarebbe la piscina, perché in acqua si riduce il carico del peso corporeo sulle articolazioni, quindi si può fare movimento senza stressarle. Altrimenti vanno benissimo lo yoga, il tai chi, e anche le semplici camminate a passo veloce».

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