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Veronica Gentili: «Sono stata in terapia per dieci anni»

La giornalista racconta che con la sua analista è cresciuta e grazie a lei ha dato sfogo alla sua identità e alle sue potenzialità, eliminando strati di ansie e nevrosi. È da tempo che non va, ma ogni tanto le manca

Se mai vi capiterà di incontrami una sera al bar, di certo mi troverete insieme a qualcuno che mi parla fitto fitto al tavolo, intento a raccontarmi tutti i suoi problemi esistenziali. Sono fatta così: ascoltare per me è una forma di rispetto, e nella vita sono sempre stata più analista che paziente. Forse perché sono una persona che non ama parlare di sé – e quando lo fa pretende di essere ascoltata con lo stessa dedizione con cui lo faccio io – oppure perché in fondo il mio confidente al bar, la mia stanza neutra in cui dare sfogo a me stessa, l’ho avuto a lungo.

A 19 anni ho iniziato la psicoterapia

Ho iniziato la psicoterapia a 19 anni e per i successivi dieci non l’ho mai abbandonata. Praticamente ci sono cresciuta. Ricordo perfettamente come andò: ero in Grecia, in vacanza dopo la maturità con il mio fidanzatino di allora, e stavo malissimo. Mi portavo sulle spalle una serie di problematiche familiari molto significative ed è stato come se la fine del liceo mi avesse consentito di far emergere tutto ciò che mi ribolliva dentro da tempo e mi faceva penare. Così tanto che un giorno, mentre ero in piscina, ebbi una crisi di riso e pianto ed esclamai: «Basta, io voglio andare in analisi». Singolare per una ragazza di 19 anni. Eppure non mi posi alcun problema a riguardo, non me ne vergognai, l’idea che gli altri potessero vedermi come una «mattacchiona» non costituì un ostacolo. Sarà che nella mia famiglia il malessere psichico non è mai stato un tabù: mia mamma era stata in analisi a lungo, mio padre per un periodo più breve, mia sorella maggiore addirittura studiava per diventare psicanalista.

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Nella stanza dell’analista ho trovato uno spazio confortevole

E infatti fu proprio lei, Marta, che chiamai: io sconvolta, mia sorella contenta di potermi aiutare, tanto che appena tornata dalle vacanze, grazie alla sua mediazione, feci il primo incontro con la mia psicanalista. Una figura femminile che, nella fase di post adolescenza in cui mi trovavo, nei dieci anni successivi passati insieme ha rappresentato per me una sorta di madre surrogata. Nella sua stanza ho trovato lo spazio confortevole, e poi familiare, in cui dare sfogo a tutta me stessa. Mi ha aiutato l’approccio freudiano: mi sdraiavo sul divano, dandole le spalle, e in quel modo riuscivo ad abbandonarmi. La sua voce era come un’eco di me stessa, una risposta a tutto ciò che tiravo fuori. Era una parte di me.

La psicoanalisi ha liberato le mie potenzialità e risorse

La fortuna è stata vivere l’analisi in un periodo chiave della mia vita. A 20 anni ci troviamo in una fase di totale costruzione dell’io, in cui la nostra identità è ancora morbida e malleabile. L’effetto della terapia è stato basilare per liberare le mie potenzialità e le mie risorse, dal punto di vista lavorativo e relazionale. Talvolta il malessere tendeva a farmi avvitare su me stessa, le energie andavano disperse nel tentativo di districare i miei nodi interni, come se venissero risucchiate da una specie di forza centripeta.

La psicoanalisi invece mi ha emancipata: è stato come se, anno dopo anno, strati di sofferenza e di problemi venissero sollevati, liberando e mettendo in mostra la mia essenza. Se prima la mia psiche rischiava di rimanere intrappolata in meccanismi nevrotici, ansie e timori, durante e dopo la terapia si alleggeriva del loro peso. Tutto ciò è stato fondamentale per i traguardi lavorativi, per la carriera, ma anche per le relazioni. Credo che il percorso fatto in analisi sia anche il motivo per cui ho avuto accanto sempre belle persone che si sono prese cura di me. Non solo capaci di ascoltarmi e andare in profondità durante la conversazione, ma anche non portate a innescare dinamiche malate o a reiterare situazioni di sofferenza o frustrazione.

Esistono ancora molti tabù a riguardo

Mi rendo conto di essere stata fortunata ad avere affrontato un percorso di psicoanalisi così costruttivo e di averlo reso familiare anche per chi mi sta intorno. Perché in effetti ho la sensazione che su questo tema ci sia una pruderie generale. A livello sociale, l’idea di affrontare la tematica psichica e quelli che sono i malesseri della mente porta con sé una serie di tabù, di riservatezze eccessive. È come se ci fosse uno stigma e questo, in un mondo che va avanti e progredisce, lo trovo surreale. La nostra è una società miscredente: dato che non vediamo il disturbo psichico, come accade con una malattia fisica, non ci crediamo; dal momento che non lo possiamo valutare non ci fidiamo e pensiamo che l’altro ci stia marciando sopra, che lo stia estremizzando. E invece riguarda la gran parte di noi. Adesso sono diversi anni che non vado più in analisi, ma la voglia di tornare ogni tanto si fa sentire.

Ho concluso la psicoterapia dopo 10 anni

Concludere è stata una decisione condivisa con la mia analista: avevamo entrambe la consapevolezza che era arrivato il momento in cui potevo spiccare il volo e anche la curiosità di vedere quanto di quello che avevamo condiviso potessi mettere in pratica da sola. Da un lato ho vissuto un senso di separazione e tristezza – infatti non escludo che ci saranno periodi della mia vita in cui mi riapproprierò di quella stanza tutta per me – dall’altro ho percepito una grande spinta vitale. Sono diventata l’analista di me stessa? Non so. Cerco di gestire i momenti «no» attraverso ciò che ho appreso. È un po’ come le ombre nel buio, la paura che ti fanno quando la luce è spenta e poi come cambiano quando l’accendi. Ma molto passa anche attraverso l’accettazione e la consapevolezza che non tutto può essere come lo vorresti.

Ho raccontato la mia storia perché credo fermamente che l’esperienza soggettiva sia preziosa per aumentare la confidenza con le tematiche di salute mentale e possa in qualche modo aiutare a uscire da quel sillogismo per cui psicoterapeuta, psicoanalisi, cura e sedute significano matto e persona da cui girare alla larga. È grottesco e anche pericoloso, un incentivo a tenersi i malesseri per sé, a covarli, e a non riuscire mai ad affrontarli in tempo. Che è una delle cose peggiori che ci possano capitare.

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Giulia Masoero Regis

Giornalista pubblicista, collabora con OK Salute e Benessere, sito e giornale, e altre testate di divulgazione scientifica. Laureata in Scienze Politiche, Economiche e Sociali all'Università degli Studi di Milano, nel 2017 ha vinto il Premio Giornalistico SID – Società Italiana di Diabetologia “Il diabete sui media”; nel 2018 il Premio DivulgScience nel corso della XII edizione di NutriMI – Forum di Nutrizione Pratica e nel 2021 il Premio giornalistico Lattendibile, di Assolatte, nella Categoria "Salute". Dal 2023 fa parte del comitato scientifico dell’associazione Telefono Amico Italia.
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