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Diabete tipo 2: l’automonitoraggio è una terapia

Essere "medici" di se stessi può rappresentare una nuova terapia per il diabete di tipo 2. Avere una maggiore consapevolezza della malattia e seguire quindi un automonitoraggio della glicemia (SMBG) permette ai medici di focalizzarsi sulle caratteristiche individuali dei valori glicemici facilitando di conseguenza l'intervento terapeutico adeguato e minimizzando e ritardando il rischio di complicanze (malattie cardiovascolari, vascolari periferiche).

Essere “medici” di se stessi può rappresentare una nuova terapia per il diabete di tipo 2. Avere una maggiore consapevolezza della malattia e seguire quindi un automonitoraggio della glicemia (SMBG) permette ai medici di focalizzarsi sulle caratteristiche individuali dei valori glicemici facilitando di conseguenza l’intervento terapeutico adeguato e minimizzando e ritardando il rischio di complicanze (malattie cardiovascolari, vascolari periferiche).

Di un approccio individualizzato e strutturato per la gestione del diabete di tipo 2 se ne è parlato a Barcellona nell’ambito della quinta Conferenza internazionale sulle tecnologie avanzate e sui trattamenti per il diabete (ATTD). Da una iniziativa di Roche Diagnostics in collaborazione con un team di diabetologi italiani è nato lo studio PRISMA. Un progetto innovativo, non farmacologico, che basandosi su un nuovo approccio alla gestione della terapia da parte del paziente, è riuscito a dimostrare un significativo miglioramento dei livelli di emoglobina glicata (HbA1c).

Gruppo San Donato

Per 12 mesi sono state controllate 1.024 persone diabetiche di tipo 2 non trattate con insulina e sono stati coinvolti 39 centri diabetologici italiani (sia universitari che ospedalieri). Due i gruppi: uno (501 pazienti) con automonitoraggio strutturato della glicemia SMBG (4 volte al giorno per 3 giorni alla settimana) e uno (523 pazienti) discrezionale quindi con un monitoraggio non costante.

I risultati dimostrano che il primo gruppo ha ottenuto una riduzione dell’emoglobina glicata (HbA1c) dello 0,39 % rispetto al secondo gruppo (-0,27). La differenza di 0,12 «su base puramente aritmetrica – ha affermato il professor Emanuele Bosi, direttore del dipartimento di Medicina interna all’ospedale San Raffaele di Milano nonchè curatore del progetto – si può tradurre in una riduzione di complicanze cardiovascolari dal 2,2 al 3,8%, malattie coronariche dall’1,6 al 2,7%, malattie coronariche fatali dall’1,9 al 3,4%, infarto del miocardio dall’1,9 al 3,4%, malattie vascolari periferiche dal 3,3 al 5,9%». Altra riduzione «inaspettata – ha aggiunto – è stata quella dell’Indice di massa corporea».

Fonte Agi



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