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Brooke Shields: dopo il parto entrai in un buco nero

«Avevo voluto una figlia con tutte le mie forze, eppure dopo che finalmente venne alla luce rischiai di uccidere lei e me per un attacco di depressione»

«Avevo desiderato Rowan con tutte le forze, da due anni non avevo fatto che provare la fecondazione assistita…», racconta Brooke Shields. «Ma quando mia figlia è arrivata, ho perso la voglia di essere madre. Lei piangeva, io non riuscivo a occuparmi di lei, la casa mi soffocava…».

Sognavo di avere molti figli
«Ho sempre sognato di avere molti figli e quando mi innamorai di Chris, mio marito, mi venne subito il desiderio di averne uno. Ma non fu facile come pensavo. Quando ci accorgemmo che il tempo passava e io non rimanevo incinta, ci rivolgemmo a una specialista in problemi di fertilità di Los Angeles, che ci sottopose a una serie di test ed esami dai quali risultò che il problema riguardava me.
Solo me. Molti anni prima avevo subito un intervento chirurgico per asportare una lesione precancerosa della cervice uterina e, in seguito all’operazione, si erano formate delle cicatrizzazioni che mi avevano provocato un restringimento e accorciamento del collo dell’utero. In più, durante l’asportazione del tessuto precanceroso erano state rimosse anche delle ghiandole uterine che servono a produrre una sostanza in grado di favorire il passaggio dello sperma.
Quindi, non solo la porta d’accesso al mio utero risultava chiusa, ma quei poveri spermatozoi erano costretti a nuotare in una piscina senz’acqua. Ecco i motivi della mia infertilità e l’avvio del mio lungo e doloroso calvario, durato ben due anni e costellato da inseminazioni artificiali (tutte andate a vuoto), da una lunga serie di iniezioni di ormoni (necessarie per la procedura della fertilizzazione in vitro) e, tra un tentativo e l’altro, anche da un’esperienza traumatica come un aborto.

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Cominciò con una morsa allo stomaco
Alla fine riuscii a portare a termine una gravidanza e il 15 maggio del 2003 nacque nostra figlia, che chiamammo Rowan. Purtroppo, solo tre settimane prima del parto mio padre morì per un cancro alla prostata.
Quando tornai a casa dall’ospedale, con Chris e la nostra bambina, sapevo di essere una persona diversa.
In poco tempo avevo perso mio padre ed ero diventata madre, e questo mi rendeva confusa, disorientata. In più, non stavo bene fisicamente. Mi sentivo ammaccata e dolorante.

Avevo forti dolori alle caviglie e ai polsi. Le mie mani sembravano appartenere a un vecchio pugile, erano intorpidite e poco sensibili al tatto, e non riuscivo neanche a svolgere i compiti più semplici, come cambiare i vestitini alla mia bambina.
Un giorno, mentre Chris tentava di aprire il velcro del pannolino della piccola, Rowan iniziò a strillare. Le sue grida si propagarono per tutto l’appartamento e, sebbene fosse una casa molto spaziosa, ebbi la sensazione che tutto attorno a me diventasse sempre più piccolo e opprimente e che le pareti mi si chiudessero addosso.
Iniziai ad avere la nausea, una morsa mi stringeva lo stomaco e il petto, impedendomi di respirare. Non riuscivo a muovere le gambe e le braccia. Seduta sul letto, iniziai a gemere, lentamente e dal più profondo del mio essere.
Probabilmente, la depressione post partum mi prese in quel preciso momento. Ho sempre amato i bambini e Rowan era meravigliosa. I suoi lineamenti erano perfetti e sembrava un angelo, ma nonostante questo non provavo alcun orgoglio per quel piccolo miracolo. Non avevo alcun desiderio di prenderla in braccio, di stringerla a me, di toccarla.

Piansi per giorni e giorni
Non riuscivo a prendermi cura in nessun modo di lei. E la cosa mi scioccava. Piansi per giorni e giorni, mi era impossibile smettere. Piangevo e singhiozzavo più di quanto facesse Rowan. E avevo paura di esser lasciata sola con mia figlia: il pensiero di essere l’unica persona che dovesse occuparsi di lei mi terrorizzava.
Ricordo quando Chris decise di scattarmi una fotografia con la bambina. L’immagine che ritrasse si rivelò di una tristezza sconvolgente: me ne stavo pesantemente abbandonata su una poltrona, con i capelli sporchi, lo sguardo assente, un sorriso forzato… E, distrattamente infilata nell’incavo del mio braccio, c’era lei. I miei amici e la mia famiglia cercavano di consolarmi, dicevano che una nascita porta sempre scompiglio nella vita di una coppia e che tutte le neomamme soffrono un po’ di depressione. Un po’ di depressione? Io stavo malissimo. Decisi di rivolgermi al mio medico, che mi prescrisse un antidepressivo. Ero talmente a pezzi che mi riusciva difficile credere che una pillola così piccola potesse aiutarmi. Presi malvolentieri la prima dose e aspettai di sentirmi miracolosamente meglio.

Ma non accadde. Mi avevano detto che i farmaci antidepressivi avevano bisogno di almeno due settimane per fare effetto, però la pazienza non è mai stato un punto forte del mio carattere… Così, dopo un po’, decisi di smettere la cura. E fu un disastro.

Volevo schiantarmi con l’auto
Un giorno ero in macchina con la bambina seduta dietro nel suo seggiolino e mi assalì una voglia pazza di schiantarmi contro il muro dell’autostrada. Grazie a Dio, con me c’era Rowan. A lei non avrei mai potuto fare del male. Chissà… Forse mia figlia mi stava salvando la vita.
Dopo questo episodio mi misi nelle mani di uno psicoterapeuta. Questi incontri mi permisero di pensare molto, di farmi domande e cercare con calma le risposte. Mi chiesi: “Che tipo di madre sarò? Piacerò a Rowan? Potrò ricominciare a lavorare? Come sarà ora il mio rapporto con Chris? Mi sentirò ancora felice?”.
Ora che è passato qualche anno dalla nascita di Rowan, a quest’ultima domanda posso rispondere di sì. Sono guarita e sono felice».
Brooke Shields (testo raccolto da Alessandra Gaeta per OK Salute)

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