Disabili

Un mezzo disabile e un disabile intero

Esiste la mezza disabilità? Si può fare una classifica delle sfighe e assegnare la disabilità intera, la mezza disabilità o un quarto di disabilità? Ovviamente la mia è una sorta di provocazione che nasce dalle riflessioni di questo weekend. Un lungo ponte accompagnato dal libro di Verga che mi ha portato prima al rifiuto completo del testo e poi al tentativo di comprendere. Infine i commenti di una lettrice che si firma Queen Ann hanno portato il mio pensiero su un altro binario.

Esiste la mezza disabilità? Si può fare una classifica delle sfighe e assegnare la disabilità intera, la mezza disabilità o un quarto di disabilità? Ovviamente la mia è una sorta di provocazione che nasce dalle riflessioni di questo weekend. Un lungo ponte accompagnato dal libro di Verga che mi ha portato prima al rifiuto completo del testo e poi al tentativo di comprendere. Infine i commenti di una lettrice che si firma Queen Ann hanno portato il mio pensiero su un altro binario.

Il risultato? Oggi mi sento un mezzo disabile, quasi vivessi un senso di colpa nei confronti degli altri, in particolare di chi soffre di disabilità mentali. Difficile entrare nella psicologia di questo ragionamento, ammetto molto più contorto del previsto. Strana la psicologia umana: spesso due sentimenti che accomunano le persone portatrici di handicap sono i sensi di colpa e la rabbia. Certo è pericoloso generalizzare, questi due sentimenti però mi pare vadano a braccetto. Partiamo dai sensi si colpa – per la rabbia c’è tempo più avanti. Razionalmente è strano pensare che chi ha subito un incidente – non per colpa sua – provi questo peso.

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Eppure è così. Spesso ripensando a ciò che è accaduto si prova un tuffo al cuore, si avverte il peso di essere diventati handicappati, di dover portare e far portare a chi ti è vicino questo fardello per tutta una vita. Difficile spiegarne i confini. Il paragone che più si avvicina è quello dei sopravvissuti a qualche incidente aereo o ferroviario. Perché queste persone portano con loro il senso di colpa di essere sopravvissuti?

Giocare con i se e con i ma è una delle attività che più piacciono al genere umano. Se quella sera avessi preso la macchina e non la moto, se mi fossi attardato giusto quella frazione di secondo… se, se, se. Ma questo gioco che serve solo a tormentare il cervello e l’animo non torna utile a lenire le ferite. E qui subentra la rabbia che ti rode all’interno e brucia mentre pronunci mentalmente “perché proprio io”? “Perché a 26 anni”? O “perché sono ancora vivo”?

Rabbia e sensi di colpa che ho trovato nel libro di Verga, Zigulì. Il senso di colpa di aver messo al mondo un figlio con handicap e quello di “lasciarlo” ai due fratellini una volta che il docente non sarà più in grado di prendersene cura. E poi la rabbia per una “sfiga”, per la sfortuna di aver avuto un figlio così (parole dell’autore). Una rabbia figlia del senso di impotenza nei confronti della vita, la frustrazione di non poter far nulla per cambiare le cose. La paura che questo figlio ti sopravviva e tu non possa più essergli di aiuto.

«Con l’andare del tempo il figlio disabile pesa non solo perché cresce e tu ti fai vecchia», scrive Queen Ann «ma perché il danno cerebrale non va mai a migliorare. Il problema non sono le gambe che non funzionano ma la testa. Stare con un carrozzato da incidente stradale tutto il giorno è una cosa ma stare con un figlio per un pomeriggio che ti chiede 287 volte “che ore sono” è un’altra, cambiare il pannolone a un disabile mentale, peso morto e movimenti non controllati è una cosa, cambiare il pannolone a un disabile non cerebrale (che quindi non fa cazzate) è un’altra».

Ecco perché oggi mi sento solo mezzo disabile, c’è chi sta peggio e io non riesco a godermi ciò che la vita mi dona.

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