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Malattia di Huntington: cause, sintomi, cure e speranze per il futuro

Il neurologo Ferdinando Squitieri si sofferma sull'impatto psicologico della malattia sul paziente e i suoi familiari e fa il punto sullo stato attuale delle sperimentazioni cliniche

Non ti ricordi più chi sei, hai incontrollabili scatti d’ira, i tuoi movimenti diventano impacciati, perdi l’equilibrio, ti cadono le cose dalle mani. E poi inizi a parlare con difficoltà, il cibo ti va di traverso, alle volte desideri morire e movimenti simili a scatti scuotono prima i tuoi arti e poi tutto il tuo corpo. Le tue facoltà mentali si riducono progressivamente, perdi peso e vivi nel timore di trasmettere tutto questo ai tuoi figli. Accadeva così anche a tuo padre… E pure a tua nonna.

Nota come “Ballo di San Vito”, “Taranta” o “la Còrea” (che in greco significa “danza”) – per via del movimento involontario che spesso la rende riconoscibile – la malattia di Huntington è una malattia rara, genetica e neurodegenerativa.

Ferdinando Squitieri, MD, PhD, neurologo, Responsabile Unità Huntington e Malattie Rare dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e Direttore Scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington, spiega meglio di cosa si tratta e fa il punto sullo stato attuale delle sperimentazioni cliniche.

Qual è l’incidenza della malattia di Huntington?

In Italia conta – e le stime sono al ribasso – circa 6.500 pazienti e 30-40.000 persone a rischio. Associa la malattia mentale al progressivo deperimento fisico e cognitivo: un po’ come mettere insieme Alzheimer, SLA e Parkinson nella stessa persona, come sostiene l’Huntington Disease Society of America.

Si manifesta in età adulta colpendo persone giovani e anziane, ma può raramente insorgere anche nei bambini con una variante particolarmente severa. È una malattia della famiglia, non solo perché è ereditaria (è autosomico-dominante, con ciascun figlio che ha il 50% di possibilità di ereditare la mutazione genetica dal genitore affetto), ma perché modifica inevitabilmente la vita dell’intero nucleo familiare con caregivers che finiscono talvolta per essere essi stessi ammalati.

Quali le cause e come si fa diagnosi?

La causa della malattia di Huntington è una mutazione nota nel gene dell’huntingtina (HTT) che mostra un’espansione del numero di tre molecole, citosina, guanina, adenina (CAG). Questo allungamento eccessivo produce una proteina dalle funzioni tossiche per le cellule nervose, con conseguente disfunzione e morte di neuroni di estese aree cerebrali a partire dallo striato, una parte profonda dell’encefalo che smette di comunicare con altre aree cerebrali.

Questa mutazione è riconoscibile con un test genetico sul DNA cui possono scegliere di sottoporsi, con opportuna guida di counseling, le persone a rischio che hanno un familiare ammalato, anche se non hanno ancora manifestazioni cliniche. La malattia di Huntington rappresenta, nella storia della medicina, il primo esempio di malattia prevedibile con un test genetico in forma presintomatica. Chi manifesta sintomi della malattia riceve una diagnosi dopo l’esame clinico, che può essere confermato successivamente con un test genetico. Nessun altro esame strumentale può essere più specifico e sensibile di una valutazione clinica con conferma genetica.

L’importanza del sostegno psicologico

Gli approcci terapeutici più utili sono quelli che incidono sugli aspetti psichiatrici, che rappresentano il disagio più grave per le famiglie e quello che causa forte discriminazione. La malattia di Huntington, infatti, genera da sempre il peggiore senso di stigma in chi ne soffre o è a rischio. Intervenire sul disagio mentale che causa, tra l’altro, la più alta frequenza (10 volte superiore a qualsiasi altra condizione) di suicidi, emerge da una recente survey della LIRH in cui 195 persone hanno denunciato carenze proprio nel sostegno psicologico.

La corretta pratica clinica prevede approcci interdisciplinari (neurologo, genetista, psichiatra, psicologo), percorsi di counseling genetico e supporto psicologico di accompagnamento al test e conoscenza di linee guida terapeutiche internazionali. Oggi la malattia di Huntington dovrebbe essere inquadrata nel programma esteso One Brain – One Health, promosso dalla Società Italiana di Neurologia sulla falsariga delle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: questo prevede una visione olistica dell’approccio terapeutico, riabilitando il ruolo determinante di fisioterapia, logopedia e psicologia in linea con le raccomandazioni dell’ultimo Piano Nazionale Malattie Rare del Ministero della Salute.

La modalità farmacologica rivolta al contenimento dei soli movimenti involontari non aiuta i pazienti ma, anzi, nel tempo peggiora la parte cognitiva, limitando le relazioni sociali.

Come si cura la malattia di Huntington?

Fasi iniziali

L’impiego di farmaci neurolettici è indicato solo in presenza di disturbi del comportamento che lo rendano necessario. Possibili protocolli terapeutici includono le seguenti categorie di farmaci:

  • Neurolettici atipici di ultima generazione;
  • associazione di neurolettici atipici con stabilizzanti dell’umore;
  • antidepressivi SSRI;
  • benzodiazepine.

In linea di principio è sempre meglio non utilizzare dosaggi molto alti delle categorie di farmaci sopra indicati e di monitorare attentamente i possibili effetti collaterali. In questo senso un occhio esperto e un attento monitoraggio a cadenza temporale regolare sono raccomandati. La partecipazione a piattaforme internazionali come Enroll-HD, la più grande raccolta di dati per una singola malattia rara come l’Huntington in Italia presso il Centro Malattie Neurologiche Rare della Fondazione LIRH di Roma, offre senza dubbi una grande opportunità di monitoraggio gratuito costante.

Fasi avanzate della malattia di Huntington

In caso di disturbi del comportamento resistenti ai neurolettici appena citati, può essere valutato l’uso di altre categorie di neurolettici atipici, associati a neurolettici classici a dosaggi che possono diventare più sostenuti in base alla severità dei sintomi, da somministrare anche attraverso vie parenterali oltre a quella orale. In questi casi una specifica competenza di gestione psichiatrica e psicofarmacologica diventa indispensabile.

Non è mai raccomandata la somministrazione di farmaci unicamente rivolti al disordine del movimento, come nel caso della “còrea”, per l’aumentato rischio di depressione, ideazione suicidaria e peggioramento delle distonie e della rigidità nel tempo.

Può essere inoltre utile associare: integratori nutrizionali, pasti integrativi, acqua gelificata in caso di disturbi della deglutizione, semolini o omogeneizzati a secondo delle necessità. Fondamentale il ricorso alla fisioterapia con esercizi rivolti alla coordinazione del movimento e all’equilibrio e alla logopedia per via della difficoltà di articolazione del linguaggio e di deglutizione che può, nelle fasi avanzate, rappresentare un grave disagio con l’aumento della frequenza di polmoniti ab ingestis.

Ricerca clinica: quali sono le speranze dalle sperimentazioni terapeutiche in corso?

Anche se l’obiettivo della cura non è ancora stato raggiunto e la strada degli ultimi 25 anni è stata costellata da una lunga serie di insuccessi, non c’è dubbio che siamo ora in una fase della storia diversa dal passato. Tutto questo è dovuto a tre determinanti cause:

  1. Costituzione di network internazionali estesi, con raccolta di dati e di campioni biologici che non ha precedenti. Basti pensare alla piattaforma di ricerca Enroll-HD, finanziata da una Fondazione statunitense, cui hanno aderito oltre 30.000 partecipanti tra pazienti e persone a rischio, con Centri selezionati in tutto il mondo (tra cui la Fondazione LIRH con sede a Roma). Un balzo nella conoscenza della malattia inimmaginabile fino a qualche anno fa.
  2. Ridefinizione delle strategie scientifiche di approccio sperimentale, che riconosce la necessità di servirsi di informazioni e campioni biologici raccolti dai pazienti, vero concreto modello di patologia.
  3. Aumentato interesse da parte delle Società Biotech e delle Industrie Farmaceutiche (circa sessanta in Nord America e una quarantina in Europa), che hanno scelto di investire in trial clinici sulla malattia di Huntington. Una tale “potenza di fuoco” non si era mai vista prima, per cui la speranza di raggiungere risultati è effettivamente concreta e deve raggiungere la comunità dei pazienti.

Qual è, dunque, l’obiettivo della ricerca mondiale?

Attualmente ci si concentra molto su tre fronti:

  1. Bloccare l’effetto domino che produce la cascata di eventi tossici da parte della proteina huntingtina difettosa, anche a costo di ridurre quella non mutata ereditata dal genitore non ammalato. Sappiamo infatti che possiamo fare a meno del 50% di huntingtina normale senza rischi per la nostra salute.
  2. Contrastare effetti tossici attraverso il riconoscimento di obiettivi diversi dall’huntingtina difettosa ma da questa causati.
  3. Individuare Biomarkers sempre più adeguati a riconoscere vantaggi terapeutici.

Nel primo punto ricadono i tentativi che in questa fase hanno la maggiore visibilità scientifica e risonanza mediatica. Per fare un esempio: il primo tentativo di terapia genica con uso di microRNA con la molecola AMT-130, uno studio di fase 1/2a che avrebbe prodotto un beneficio (solo) su 12 pazienti. Questo studio offre speranze, sebbene occorra molta cautela nell’interpretazione dei dati condivisi finora, sia per la complessità dell’approccio neurochirurgico stereotassico (oltre 12 ore di intervento) sia per la popolazione di controllo non del tutto adeguata in mancanza di placebo, sia per carenza di informazioni finora forniti su aspetti determinanti, come quelli che riguardano marker cerebrali e concentrazione dei livelli di huntingtina.

Altre strategie sembrerebbero più promettenti

Votoplam è una molecola per uso orale che attraversa la barriera ematoencefalica e agisce sia nell’encefalo che nei tessuti periferici attraverso un’azione sul meccanismo di splicing dell’RNA, attualmente in sperimentazione anche nel nostro Paese. Ha prodotto dati preliminari di fase 2b che indicano ottima tollerabilità, effetto positivo sui livelli di proteina huntingtina e preliminare beneficio clinico su autonomie e aspetti cognitivi, per cui è verosimile attendersi una successiva fase tre di studio.

SKY-051 è una molecola che adotta un meccanismo simile a quello di Votoplam, in corso di sperimentazione in fase iniziale e di cui sono stati comunicati primi incoraggianti risultati, con un’azione anche su un ulteriore meccanismo biologico che riduce il mosaicismo somatico della mutazione.

Infine WVE-003 è un farmaco Anti Senso (ASO) che abbassa i livelli della sola huntingtina mutata e non anche di quella sana, che verrà testato a breve in fase 2/3.

Dunque, molte speranze e un mondo scientifico dinamico che si avvicina sempre di più all’obiettivo. Nel frattempo, ci si prepara per individuare nuovi markers di malattia. Il progetto europeo Joint Program Neurodegenerative Diseases (JPND) denominato Expand-RED ha esattamente questo obiettivo: individuare un marker clinico con nuove tecnologie (modulazione della voce ed intelligenza artificiale), interfacciarlo con marker consolidati di imaging cerebrale attraverso RMN volumetrica e con marker biologici collegati alla varabilità del mosaicismo somatico della mutazione. Un progetto ambizioso ai nastri di partenza che, grazie al co-finanziamento del Ministero della Salute, coinvolgerà l’Italia con l’Unità Huntington dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza.

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