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Ablazione e fibrillazione atriale: perché è più efficace dei farmaci

L'intervento di ablazione per la fibrillazione atriale dimezza il rischio di ricovero e la mortalità

Quando il cuore perde il ritmo per colpa della fibrillazione atriale, è più facile che si affatichi andando incontro allo scompenso cardiaco. Una malattia cronica e progressiva che gli impedisce di pompare correttamente il sangue garantendo il giusto rifornimento agli organi.

Cosa fare in questi casi? Meglio ricorrere ai farmaci che controllano il ritmo cardiaco. Oppure all’ablazione transcatetere, la tecnica d’intervento mininvasiva che permette di isolare e disattivare le cellule cardiache responsabili dell’aritmia? Nella maggior parte dei casi l’ablazione viene eseguita in caso di inefficacia o intolleranza della terapia con medicinali.

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Intervenire o non intervenire? Questo è il problema

«E’ un grande dilemma per i medici che visitano questi pazienti. Perché nessuna delle terapie farmacologiche tradizionali riesce a migliorare davvero le loro condizioni», spiega Nassir F. Marrouche, professore di medicina interna e direttore del centro per le aritmie dell’Università dello Utah, negli Stati Uniti.

Non c’è sempre la cura definitiva

Il dibattito riguarda soprattutto quei pazienti con fibrillazione atriale che soffrono anche di disfunzione ventricolare sinistra, ovvero un indebolimento del ventricolo sinistro che dovrebbe fornire gran parte della contrazione del cuore. Finora nessuno studio clinico è riuscito a indicare un trattamento definitivo per questa condizione.

Farmaci o ablazione?

I ricercatori dello Utah, insieme ai cardiologi tedeschi della Klinikum Coburg, hanno dunque pensato di mettere a confronto gli effetti della terapia farmacologica (prescritta secondo le indicazioni della Società europea di cardiologia e dell’American Heart Association) con quelli dell’ablazione. Questo intervento consiste nell’inserimento per via venosa (in genere attraverso la vena femorale o la giugulare interna) di alcuni sondini, chiamati elettrocateteri, che vengono spinti fino all’interno del cuore. Una volta posizionati sulle cellule anomale che causano l’aritmia, somministrano una stimolazione elettrica a radiofrequenza che distrugge il tessuto malato responsabile dell’innesco o del mantenimento dell’aritmia.

La sperimentazione

Lo studio CASTLE-AF ha coinvolto 363 pazienti selezionati tra Nord America, Europa e Australia, tutti colpiti da fibrillazione atriale e da scompenso cardiaco. Lo loro funzionalità cardiaca era inferiore al 35% della normale capacità. Un primo gruppo di 179 pazienti è stato sottoposto ad ablazione, mentre i restanti 184 hanno assunto i farmaci antiaritmici.

I risultati

I dati raccolti a distanza di otto anni, e presentati al congresso della Società europea di cardiologia a Barcellona (ESC 2017),  dimostrano che i pazienti sottoposti ad ablazione hanno una mortalità per tutte le cause che è inferiore rispetto a quella dei pazienti in terapia farmacologica (28% vs 46%). L’intervento ha determinato anche un minore tasso di mortalità cardiovascolare (13% vs 25%).

Ablazione e fibrillazione atriale:
meno complicazioni, più risparmi

Nel complesso, l’ablazione ha ridotto le probabilità di ricovero e la mortalità rispettivamente del 47 e del 44%. «Questo studio clinico è il primo a dimostrare con dati solidi che l’ablazione salva più vite dei farmaci antiaritmici», commenta Marrouche. «Inoltre riduce i costi di trattamento, evitando un peggioramento dello scompenso e i conseguenti ricoveri in ospedale».

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