Sessualità

Asino è il genitore che fa i compiti dei figli

Mamma e papà non devono risolvere i problemi e scrivere i temi degli studenti. Come comportarsi? Come un buon allenatore con il suo atleta

È la frase più ricorrente degli incontri fra mamme e papà: «Io da piccola i compiti li facevo da sola, perché devo controllarlo come un questurino? Che asino». Succede in diverse famiglie, forse è accaduto anche in quella di Riccardo Scamarcio (leggi), reo confesso di non aver mai ottenuto risultati ragguardevoli a scuola: i genitori cercano di acciuffare lo scolaro per costringerlo a studiare e lui accampa scuse. Poi reclama l’aiuto della mamma.
Che fare? «Rifiutarsi di aiutarli, nel senso di non fare i compiti insieme con loro», suggerisce Gianluigi Daffi, del servizio di psicologia dell’apprendimento alla Cattolica di Milano, nonché autore di Missione compiti. Manuale di sopravvivenza per i genitori (Erickson). «Ne va della sua della capacità di essere, da adulto, un lavoratore in grado di gestire i propri impegni».

Non significa abbandonarli
Intendiamoci: non significa abbandonare i ragazzini a se stessi. Ma neanche sostituirsi a loro, nei compiti, negli sforzi. L’eccesso di protezione bloccherebbe l’autostima e li manderebbe allo sbaraglio nella vita.
Ma cosa vuol, dire, in pratica, non aiutarli ma nemmeno abbandonarli a se stessi? Primo: predisporre per loro una scrivania sgombra da giocattoli, una camera dove la tv sia spenta, un ambiente sereno. E pronunciare la frase fatidica: «È ora di fare i compiti, altrimenti non avrai tempo di andare a giocare o vedere i cartoni».

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Mai ridursi all’ultimo momento, di sera o nel weekend la domenica pomeriggio. «Il genitore è come un buon allenatore con il suo atleta», aggiunge Daffi. «Non corre al posto suo, non gli sta con il fiato sul collo, ma predispone per lui un piano di studio. Gli alunni delle elementari raramente hanno da subito la capacità di distribuire nell’arco della settimana i vari impegni. Papà e mamma devono accompagnare i figli verso l’autonomia. Alle medie avranno meno problemi».

Niente minacce ma frasi ferme
E se la piccola peste continua a opporsi? No alle minacce, ma frasi ferme: «È importante fare capire ai figli, fin dalla prima elementare, che non li mandiamo a scuola per stressarli, ma perché armarli di un’istruzione è un dovere dei genitori, così come studiare è un dovere dei ragazzi», consiglia Daniela Lucini, docente di psicologia clinica presso la facoltà di medicina dell’Università degli Studi di Milano.
Mai intervenire nel merito dei problemi di matematica o dei temi. Solo un paio di domande a caso sulla lezione, per controllare che abbia studiato davvero. Due le opzioni, a quel punto: «bravissimo, vai a giocare», oppure «forse è meglio che ripassi un’altra volta».
Sbagliato correggere gli errori (al massimo, far notare: «qualcosa non va, trovala»): a quello penserà l’insegnante. Spetta ai docenti spiegare le lezioni. «I genitori devono essere presenti, non oppressivi», conclude Lucini. «Vale più un’ora di gioco insieme che un controllo ossessivo sulle poesie da mandare a memoria».

Se il rifiuto di studiare è una forma di protesta
E se i capricci da compiti rendono furenti mamma o papà? «Bisogna fermare il circolo vizioso delle urla», dice lo psicologo Gianluigi Daffi. «Quando non ne possiamo più è meglio chiedere al coniuge o a un amico di sostituirci: maltrattando il bambino, gli insegneremmo solo la cattiveria».
Altro discorso è se i brutti voti sono la spia di un disagio. «Il rifiuto di studiare può essere un segnale di fumo lanciato ai genitori», spiega Tilde Giani, docente di psicologia della formazione all’Università di Torino. «Allora meglio non abbandonare il figlio a se stesso e aiutarlo, senza assillarlo». Bisogna capire se le difficoltà sono solo emotive, risolvibili se è il caso con l’aiuto di uno psicologo, oppure se ci sono disturbi d’apprendimento.
Gilda Lyghounis – OK La salute prima di tutto

Ultimo aggiornamento: 27 dicembre 2010

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