
Ti capita di sentirti stanco già al mattino, ancora prima di iniziare la giornata? Non sei solo. La fatica persistente colpisce circa un italiano su dieci, un disturbo sempre più diffuso e spesso sottovalutato, che non migliora nemmeno dopo il riposo. Secondo una recente ricerca dell’Università di Verona, condotta nell’ambito del progetto MNESYS sulle neuroscienze, la causa potrebbe nascondersi nel cervello, che nei soggetti più affaticati tende a sovrastimare lo sforzo necessario a compiere un’azione, amplificando la sensazione di stanchezza.
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Stanchezza che non passa, un fenomeno sempre più comune
Con l’arrivo dell’autunno, la riduzione delle ore di luce, i cambiamenti di temperatura e di routine possono accentuare la sensazione di spossatezza. Ma per molte persone la fatica non è solo stagionale: si tratta di una condizione che dura mesi, talvolta anni, e che interferisce con la qualità della vita, il lavoro e le relazioni sociali.
Gli studi dell’Università di Verona – condotti da Mirta Fiorio e Angela Marotta del Dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento – hanno cercato di comprendere i meccanismi cerebrali che regolano la percezione dello sforzo. I risultati, pubblicati sul Quarterly Journal of Experimental Psychology, aprono nuove prospettive sul modo in cui il cervello “interpreta” le informazioni che riceve dal corpo.
Stanchezza che non passa: il cervello come amplificatore della fatica
La fatica, spiegano i ricercatori, è una funzione protettiva: serve a impedirci di superare i limiti e di mettere a rischio il nostro equilibrio fisico e mentale. Tuttavia, in alcune persone, questo sistema di protezione diventa ipersensibile, generando una stanchezza sproporzionata rispetto all’attività svolta.
«Quando vogliamo compiere un gesto – spiega la professoressa Fiorio – il cervello prevede in anticipo le sensazioni che proveremo, modulandone l’intensità. Se questo meccanismo non funziona correttamente, le informazioni motorie vengono percepite come più intense del dovuto, e il movimento appare più faticoso, ancora prima di essere eseguito».
In altre parole, il cervello di chi soffre di fatica cronica sovrastima l’energia richiesta per ogni azione, portando a una sensazione costante di sforzo eccessivo.
Lo studio: come nasce la percezione di “fatica aumentata”
Il team di lavoro ha analizzato 77 persone con malattia di Parkinson o disturbi neurologici funzionali, patologie in cui la stanchezza è un sintomo frequente e invalidante. Attraverso un test di “forza target” – una pressione controllata su un dito tramite un braccio robotico – i ricercatori hanno osservato che nei pazienti con stanchezza patologica le sensazioni motorie risultavano più intense rispetto alla realtà.
Questo errore di previsione portava il cervello a valutare come più faticose anche le azioni semplici, come sollevare un oggetto o compiere un piccolo movimento. Un cortocircuito, insomma, tra mente e corpo.
Ma il fenomeno non riguarda solo chi soffre di malattie neurologiche: in un secondo studio, gli scienziati hanno coinvolto 50 persone sane che però riferivano una costante sensazione di affaticamento. Anche in questi casi, il cervello mostrava una minore capacità di attenuare l’intensità delle sensazioni motorie, con lo stesso effetto di amplificazione della fatica.
Stanchezza che non passa: la percezione del controllo
Secondo la professoressa Fiorio, questo meccanismo può spiegare anche un altro aspetto spesso riferito da chi si sente cronicamente stanco: la sensazione di non avere pieno controllo delle proprie azioni.
Quando il cervello “interpreta male” le informazioni motorie, non solo amplifica la fatica, ma riduce la percezione di autoefficacia, ossia la convinzione di poter portare a termine i compiti quotidiani. È un circolo vizioso che può alimentare la stanchezza stessa e influire sul benessere psicologico.
Verso nuove strategie di trattamento
Sulla base di questi risultati, i ricercatori ipotizzano nuove strategie preventive e terapeutiche per chi soffre di stanchezza cronica. «In futuro – osserva Fiorio – potremmo sfruttare attività fisiche che migliorano la consapevolezza del proprio corpo, come yoga, pilates o tai chi, veri e propri “allenamenti del cervello” per ristabilire un corretto equilibrio tra percezione e movimento».
Allenare la mente a prevedere correttamente lo sforzo, infatti, potrebbe aiutare a ridurre quella sensazione di affaticamento costante che molti sperimentano anche in assenza di malattia.
Un progetto di neuroscienze tutto italiano
Le ricerche fanno parte del progetto MNESYS (Mind and brain, from molecules to systems), il più vasto programma europeo di neuroscienze mai realizzato, che coinvolge oltre 90 centri di ricerca e 800 scienziati italiani. Coordinato dalla professoressa Patrizia Fattori dell’Università di Bologna, il programma studia le interazioni fra cervello, corpo e comportamento per comprendere meglio i meccanismi alla base di fenomeni complessi come la fatica, la percezione e il movimento.




