Salute

Ritardo nel linguaggio: che fare quando le parole non arrivano?

Il disturbo preoccupa molti genitori. A partire dai tre anni va consultato il logopedista

«Words don’t come easy» cantava negli anni 80 F. R. David. Le parole non vengono facilmente anche a molti bambini nell’età in cui tutti quanti, genitori in primis, si aspettano che inizino a parlare. Le fasi dello sviluppo del linguaggio, è vero, non sono uguali per tutti. C’è chi arriva prima e chi ci mette più tempo, senza per questo avere alcun tipo di problema.

Indicativamente verso i dodici mesi d’età il bambino passa dalla lallazione (ripetizione di sillabe, ma-ma-ma, pa-pa-pa) ai primi vocaboli. E intorno ai tre anni dovrebbe essere in grado di pronunciare i primi discorsi. Se questo non avviene, non bisogna disperarsi. Ma neppure mettere la testa sotto la sabbia lasciando che il piccolo colmi da solo le sue lacune. Come è stato verificato da studi scientifici, sono proprio le difficoltà del linguaggio a preludere ad alcuni disturbi specifici dell’apprendimento (DSA). Ad esempio dislessia, disgrafia e disortografia, che rientrano tutti nell’area della letto-scrittura.

Gruppo San Donato

Ritardo nel linguaggio: i campanelli d’allarme

I primi campanelli d’allarme suonano alla scuola dell’infanzia quando lo sviluppo del linguaggio è in ritardo. Il bambino non riesce a pronunciare bene le parole oppure il suo vocabolario è molto ristretto (meno di 50 parole all’età di due anni). Se non s’interviene in questa fase, il rischio è che, una volta iniziata le scuola primaria, imparare a leggere diventi difficile come scalare una montagna. E scrivere in stampatello si riveli un’impresa ardua, figuriamoci poi in corsivo.

«Il ritmo di acquisizione del linguaggio, delle abilità di lettura, scrittura e calcolo, ma anche lo sviluppo dell’attenzione e della coordinazione motoria, vanno monitorizzati da parte dei pediatri e degli insegnanti. In quanto uno scostamento dai ritmi normali potrebbe costituire un problema», spiega Cristiano Termine, neuropsichiatra infantile e professore associato all’Università dell’Insubria. «I bambini con problemi di linguaggio a cinque anni sono moltissimi. Ed è ovvio che non possiamo fare una valutazione neuropsichiatrica a tutti. Però un minimo di misurazione di queste abilità bisogna farla. I bilanci logopedici, quindi, andrebbero fatti a tre anni, a cinque sono già tardivi. Se il bambino a tre anni ha un problema di linguaggio e s’interviene con gli opportuni potenziamenti, all’inizio della scuola primaria potrà incontrare meno difficoltà ad imparare a leggere».

Meglio agire presto, insomma. R le prime figure da coinvolgere sono le maestre che, già dalla scuola dell’infanzia, possono entrare in azione. Il passo successivo è rivolgersi al pediatra e al neuropsichiatra infantile, i quali potranno indirizzare verso un logopedista che, con appositi esercizi, stimoli le aree del linguaggio carenti.

Un’intelligenza nella norma

Come detto, il ritardo nel linguaggio non va sottovalutato, ma non è neppure il caso di disperarsi, pensando che il bambino indirizzato a un logopedista non raggiungerà mai un certo rendimento scolastico o che non riuscirà ad andare al liceo o all’università. «Gli alunni e gli studenti con DSA hanno per definizione un livello intellettivo nella norma», rassicura il neuropsichiatra.

«I DSA sono causati da un’alterazione anatomica o funzionale di una popolazione di neuroni che non riescono a svolgere in maniera ottimale la loro funzione nella lettura/scrittura o nel calcolo. Si tratta di alterazioni microscopiche che non sono rilevabili con una risonanza magnetica. Ma la riabilitazione tramite training specifici funziona. Perché, per fortuna, i neuroni sono plastici e possono riattivarsi e riorganizzarsi». Proprio per questo è nata la legge 170 del 2010 che ha regolamentato la possibilità di avere strumenti compensativi per i DSA. Come, per esempio, la possibilità di seguire un programma didattico personalizzato che contempli tempi più lunghi per lo svolgimento delle verifiche oppure l’uso della calcolatrice o del tablet.

I giochi a casa e in famiglia

Comunque, non occorre aspettare la diagnosi vera e propria per attivare i potenziamenti. Anche perché le liste di attesa per riuscire ad avere la presa in carico da un centro specializzato con il Servizio sanitario nazionale sono lunghissime. La situazione in Italia si presenta un po’ a macchia di leopardo, con alcune regioni più organizzate e altre meno. Ma si parla, nella maggior parte dei casi, di attendere almeno un anno. Tempo prezioso.

«Le attività di potenziamento», spiega Termine, «oggi si fanno tramite computer. Ci sono dei giochi particolari che riescono a interessare il bambino e, allo stesso tempo, allenano i suoi neuroni. Ma non è con un’ora alla settimana di logopedia che si risolve il problema. Queste attività devono essere svolte tutti i giorni a casa, per almeno 15-20 minuti al giorno. Esistono anche giochi che si possono fare in famiglia». 

Ritardo nel linguaggio: come colmare il gap

Per sapere come affrontare il problema, per avere suggerimenti sui centri specializzati, sia della sanità pubblica che privata, per capire quale approccio avere con la maestra e quali sono i diritti dei bambini con disturbi specifici dell’apprendimento stabiliti dalla legge 170/2010, è d’aiuto rivolgersi all’Associazione Italiana Dislessia (AID) che ha sedi su tutto il territorio italiano (l’elenco su aiditalia.org).

«Oggi ci sono molti strumenti a disposizione di bambini e ragazzi con DSA che consentono di proseguire gli studi e di ridurre il gap con gli altri studenti», spiega Andrea Novelli, presidente dell’AID. «I computer hanno programmi che leggono i testi scritti. Ora c’è anche la possibilità di fare dettati con dei software appositi. Su ogni pc ci sono poi i correttori ortografici e con i nuovi sviluppi dell’Intelligenza Artificiale la vita delle persone con DSA non potrà che migliorare. Anche le Università si sono attivate. Concedendo più tempo e sintesi vocale per i test di ingresso. Ma c’è ancora molto da fare. Il passo successivo sarà facilitare anche l’approccio al mondo del lavoro. Del resto, concedere questi strumenti agli studenti con DSA non significa avvantaggiarli, ma semplicemente metterli alla pari con gli altri».

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