
«Le persone accanto a una donna vittima di violenza spesso si sentono spettatori impotenti, incapaci di interpretare quei primi segnali che precedono l’escalation degli abusi. In realtà potrebbero diventare alleati importanti, aiutando la donna a prendere consapevolezza delle dinamiche in cui è coinvolta. La violenza da partner intimo ha caratteristiche particolari e spesso chi la subisce fa fatica a riconoscerla». Serena Borroni è psicologa dell’Unità di Psicologia Clinica e Psicoterapia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e associata di Psicologia Clinica all’Università Vita‐Salute San Raffaele
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Quali sono i campanelli di allarme che devono allarmare le persone che sono vicine alla vittima?
«Ci sono comportamenti tipici dei perpetratori: il controllo costante della vita della partner, l’imposizione di limiti nei rapporti con la famiglia o con gli amici, il divieto di lavorare, decisioni su come vestirsi o pettinarsi, fino allo spionaggio. Sono aspetti visibili anche dall’esterno. Poi c’è la violenza psicologica: svalutazioni continue, umiliazioni, offese, spesso anche in pubblico. Critiche all’aspetto, al modo di gestire casa o figli: segnali chiari e purtroppo molto frequenti».
Uno degli elementi più evidenti è l’isolamento della vittima. A volte sembra però che sia la donna stessa a isolarsi. Perché?
«L’isolamento può essere autoindotto per vari motivi. C’è la vergogna, la colpevolizzazione (“me la sono meritata”), ma spesso è proprio il partner che lo induce. L’isolamento serve al maltrattante per rendere la donna più fragile e manipolabile. E una donna isolata fatica ancora di più a dare un senso a ciò che sta vivendo».
Chi è vicino alla vittima deve evitare di cadere nel tranello dell’isolamento provocato dal partner abusante. Come comportarsi?
«Esatto: non bisogna assecondare l’isolamento. Al contrario, bisogna aiutare la donna a mantenere i legami, a non chiudersi. L’isolamento è una delle armi principali del maltrattante, e riconoscerlo è essenziale per proteggere la vittima».
Quanto conta il ciclo della violenza nel mantenere la donna intrappolata nella relazione?
«Molto. Il ciclo ha tre fasi: la tensione crescente, l’esplosione della violenza e infine il pentimento del partner, che torna affettuoso, fa regali, sembra voler ricucire. Questo crea un enorme disorientamento: la donna non capisce cosa sia accaduto e fatica a riconoscere la relazione come abusante».
Se una persona esterna – collega, vicino, conoscente – nota questi segnali, come può intervenire senza invadere la vita privata?
«È un tema delicatissimo. Bisogna essere assertivi ma molto rispettosi. L’obiettivo è offrire una prospettiva diversa, aiutare la vittima ad acquisire consapevolezza sulla pericolosità della situazione. A volte è possibile, altre volte meno: dipende molto dalle caratteristiche della persona coinvolta».
La vergogna è un ostacolo enorme: spesso la donna si chiude ancora di più quando qualcuno le chiede se va tutto bene. Come si supera questo blocco?
«È vero, la vergogna porta alla chiusura. Ecco perché è importante normalizzare il tema. I dati Istat mostrano che circa il 30% delle donne ha subìto almeno una forma di violenza, e il 17% violenza da partner intimo. Parlarne aiuta le donne a capire che non sono sole e che la colpa non è loro».
Come si esce da una relazione abusante, soprattutto se la violenza è psicologica?
«Non è un processo semplice, né immediato. Spesso è necessario l’aiuto di uno specialista, che aiuti a ricostruire sicurezza personale e autostima. Solo così si possono attivare le risorse necessarie per affrontare il distacco, che è un passaggio difficile e delicato».
Molti sostengono che la violenza domestica sia soprattutto un problema culturale. Dal suo punto di vista clinico, cosa bisognerebbe fare a livello pubblico?
«Il fatto che se ne parli aiuta molto: riduce vergogna e autocritica. Ma bisognerebbe lavorare anche sui perpetratori. Chi mette in atto violenza ha spesso tratti personologici specifici: mancanza di empatia, scarsa capacità di provare colpa, percezione della partner come proprietà. È fondamentale agire in modo preventivo, partendo dalle scuole con educazione affettiva, sessuale e al rispetto».
Le pene più severe non sembrano aver ridotto le violenze. E molte donne, nonostante denunce ripetute, non vengono protette. Perché?
«Perché il sistema non sempre funziona. Molte donne si rivolgono ai centri antiviolenza, ma poche portano a termine il percorso. I motivi sono tanti: organizzativi, psicologici, economici. Inoltre alcune misure di protezione non vengono applicate con sufficiente tempestività».
Un aspetto che colpisce è che non si tratta di un fenomeno legato al ceto sociale o al livello culturale. Conferma?
«Assolutamente. La violenza domestica è trasversale. Colpisce donne di ogni età, formazione e status. La relazione abusante è manipolatoria: anche una donna colta, indipendente, brillante può rimanere intrappolata senza accorgersene. Ecco perché è fondamentale fare psicoeducazione sul ciclo della violenza».




