
C’è qualcosa di affascinante, e allo stesso tempo divertente, nel parlare con Valeria Bruni Tedeschi. Che l’argomento sia il cinema, il suo passato, la sua routine quotidiana o come pratica sport, lei scava a fondo, poi risale, vola alto e ti racconta fatti, ma soprattutto sensazioni, vissuti ed emozioni. Nata a Torino nel 1964, figlia dell’industriale e compositore Alberto Bruni Tedeschi e della pianista e attrice Marisa Borini, a nove anni si trasferisce con la famiglia a Parigi, dove inizia a recitare e a muovere i primi passi nel mondo del teatro e del cinema.
Non ha più abbandonato la Francia, ma è rimasta fedele anche all’Italia: i due Paesi in cui la sua carriera di attrice e regista si è intrecciata con successo. Un premio César come migliore promessa femminile nel 1994, poi quattro David di Donatello vinti da protagonista, e uno, la scorsa primavera, per il ruolo secondario della principessa Gaia Brandiforti nella serie L’arte della gioia, diretto dalla grande amica e collega Valeria Golino.
Una carriera che continua, prolifica. A settembre ha sfilato luminosa sul red carpet della 82° Mostra del Cinema di Venezia per presentare il film Duse, in cui interpreta la Divina attrice di inizio Novecento, mentre questo mese sarà nelle sale dal 2 ottobre con La tenerezza, nei panni di una cinquantenne indipendente e single per scelta, e dal 30 ottobre con Cinque secondi, firmato dal regista Paolo Virzì, in cui reciterà accanto a Valerio Mastandrea. Prossimamente, la vedremo anche al fianco di Jasmine Trinca e Adriano Giannini nel thriller psicologico L’estranea.
«In questi film interpreto quattro donne molto diverse tra loro, ma quando lavoro ai miei personaggi esprimo sempre un diario intimo della mia vita, delle mie ossessioni e delle mie emozioni segrete», racconta. «Sono io, con luci diverse. Un po’ come una ballerina che in un caso danza con le punte, in un altro per terra, in un altro ancora cantando. Lo spettacolo che arriva al pubblico è diverso, ma il corpo e le emozioni sono sempre le mie, in quel preciso momento di vita. Sono i miei strumenti di attrice».
Non è un caso che Valeria Bruni Tedeschi utilizzi la metafora della ballerina per parlare del suo lavoro. La danza classica ha fatto parte della sua vita fin da ragazza e la disciplina, intesa come il rigore che pure contraddistingue il ballo, ricorre spesso nel suo modo di raccontarsi. Così come torna il concetto di rituale, che l’attrice ricerca in vari ambiti, dallo sport alla psicoterapia, per sentirsi in pace con se stessa e mettere ordine nella sua quotidianità.
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Che ruolo ha il lavoro sul corpo nel suo percorso di attrice?
«Mi sembrerebbe molto strano fare questo mestiere senza occuparmi costantemente della mia fisicità. Trovo che lo sport, in qualsiasi sua forma, dia coscienza del proprio corpo e della propria emotività, e questo per recitare è essenziale. Ho iniziato fin da piccola, a undici, dodici anni, in modo autodisciplinato. Gareggiavo a livello agonistico nello sci d’acqua e, nonostante nessuno mi chiedesse di farlo, mi allenavo in laghi artificiali vicini a Parigi, anche a novembre, con temperature bassissime. Poi in inverno, quando non era possibile, andavo a correre. Tutto questo per non riuscire a essere una grande campionessa, ma lo facevo comunque, con grande energia. Poi un giorno ho detto basta con lo sci d’acqua e mi sono dedicata alla danza classica. Era tardi per farne il mio lavoro, ma per vent’anni, quasi ogni giorno, con grande dedizione e disciplina, ho ballato».
Un tratto che sembra non aver perso. Una volta ha detto che quando finisce le riprese, il suo Super Io, una presenza da lei definita “militaresca” torna a comandarla, obbligandola a dormire, fare sport, occuparsi della famiglia.
«Sì, una macchina organizzativa che si mette in moto appena finisco di girare. Infatti lavorare sul set per me è quasi come una vacanza, perché – se vogliamo continuare a parlare in termini psicoanalitici – in quello spazio, come attrice, si può esprimere il mio Es, una parte della mia persona che spesso è soffocata».
In quei giorni come riesce a conciliare la dimensione artistica con quella familiare?
«In realtà cerco comunque, con tutte le mie forze, di restare nella mia vita normale al di fuori del set, soprattutto con i miei figli: che sia a Parigi o altrove, per me è fondamentale dormire sotto lo stesso tetto, sentire che ci sono, che i nostri inconsci sono vicini. Questo è il mio sforzo più grande. Anche Eleonora Duse viveva il conflitto tra l’amore per la figlia e la dedizione al teatro, e questo mi ha molto colpita. Dopotutto nei miei personaggi cerco sempre due cose: la solitudine e i conflitti interiori, in cui provo a inserire anche i miei (l’attrice ha due figli: Oumy, adottata nel 2009 insieme all’attore Louis Garrel; e Noé, adottato nel 2014 da single, ndr)».
Diceva che lo sport l’aiuta a prendere coscienza del suo corpo e della sua mente. In che modo?
«Quando ho smesso con la danza ho scoperto lo yoga, che ha una dimensione spirituale di cui sento spesso la mancanza nella vita. Lo pratico due-tre volte alla settimana, come un rituale, mette pace dentro e intorno a me. Poi ogni tanto nuoto e corro, due attività che mi permettono di meditare. Sotto l’acqua, ad esempio, c’è qualcosa che ha a che vedere con l’inconscio».
Di lei Valeria Golino ha detto che è impulsiva e non ha paura di niente. C’è uno sport estremo che farebbe senza pensarci troppo?
«No, per niente, sono coraggiosa nelle emozioni e nella vita in generale, ma non salterei mai nel vuoto attaccata a un elastico. Nello sport non cerco adrenalina, ma serenità».
Uno strumento di equilibrio, più che estetico.
«Sì, poi ben venga che faccia bene anche all’estetica, ma non è il mio primo obiettivo. Lo sport è il mio ansiolitico e antidepressivo naturale, dipende dai momenti. È la chimica delle endorfine, certo, ma anche la ritualità fisica che mi fa sentire così. Mi affascina e mi interessa».
In un’occasione ha dichiarato che “a tutte le donne viene chiesto di rifarsi, come se la bellezza non esistesse se non nella giovinezza”. Lei come vive gli anni che passano?
«Invecchiare è difficile. Nel 2016 ho diretto un documentario, Una ragazzina di 90 anni, in cui ho esplorato la vita di pazienti con Alzheimer in un reparto geriatrico francese in cui si svolgevano laboratori di danza. Purtroppo, non tutte le società considerano gli anziani belli, e forse la nostra meno che altre. Così a volte sono stata influenzata da questo punto di vista e non mi sono piaciuta. Ma è successo soprattutto a 50 anni, adesso mi apprezzo molto di più, è come se vivessi una nuova giovinezza».
E la chirurgia estetica?
«Penso che non sia la soluzione. Quando ero piccola andavo al mare con una mia amica, a Ostenda (in Belgio, ndr), e insieme facevamo un buco nella sabbia sperando che resistesse alle onde che si infrangevano continuamente sulla spiaggia. Ci impegnavamo tanto con quelle palette, ma alla fine vinceva sempre lei: la natura. Quindi quando penso a tutti gli escamotage che cerchiamo e proviamo per non invecchiare, penso sempre a Ostenda e alle sue onde. Poi è ovvio, malgrado tutto, cerco anche io di contrastare gli anni che passano: mangio bene, faccio sport, se ci sono delle cose da prendere per la pelle, le prendo, ma la chirurgia no, non credo che la proverò mai. Mi sembrerebbe un po’ come cercare di costruire “una barriera contro il Pacifico”, come il titolo del libro di Marguerite Duras. E poi sarebbe un problema per il mio lavoro…».
In che senso?
«Mi fa paura perché perderei coerenza tra il mio viso e il mio corpo. Come dicevo, noi attori abbiamo degli strumenti: il nostro aspetto, ma anche l’anima, le emozioni, le esperienze di vita. Se decido di sottopormi alla chirurgia, rischio di rovinare questo strumento. Non di migliorarlo. Rischio, ad esempio, di perdere umanità: non riuscirei più a raccontare la vita, le rughe e l’esperienza di una donna di 50-60 anni. Quindi cerco di rispettare la mia umanità».
Oltre a raccontarla con ruoli al cinema, come ne La pazza gioia, lei ha parlato spesso di salute e malattia mentale, anche con diretti riferimenti alla psicanalisi. La segue ancora?
«Sì, vado sempre dalla mia psicanalista che, poverina, nonostante i tanti anni di sedute non vede molti risultati, come ho già raccontato in passato. Ma anche qui torna la ritualità che mi dà serenità: mi piace avere un posto in cui andare, in modo così intimo e volendo anche segreto, e fare un resoconto della mia vita e di ciò che vivo. E soprattutto mi dà sollievo il fatto che io ci possa andare pagando, così non ho troppi sensi di colpa! Detto questo, penso che la malattia mentale sia uno stupido e inutile tabù. Perché ci vergogniamo? Ricordo che quando avevo dodici anni nella mia scuola di Parigi è arrivato Franco Basaglia. Mi ricordo di lui in palestra a parlarci, il primo a cercare di scardinare questo tabù, ed erano gli anni Sessanta. Trovo assurdo che oggi questo pregiudizio non se ne sia ancora andato del tutto».