
Negli ultimi mesi si è acceso un dibattito molto acceso sul possibile legame tra l’uso di paracetamolo in gravidanza e il rischio di autismo nei bambini. Dichiarazioni politiche e prese di posizione pubbliche hanno contribuito ad aumentare la confusione, ma cosa dice davvero la ricerca scientifica? E quali novità arrivano dal fronte dei trattamenti per l’autismo?
In questo articolo
Paracetamolo in gravidanza e rischio di autismo: prove contrastanti
La comunità scientifica non è unanime sul tema.
- Uno studio svedese pubblicato nel 2024 su JAMA, che ha coinvolto più di 2 milioni di bambini, non ha trovato alcuna associazione tra l’assunzione di paracetamolo in gravidanza e lo sviluppo di autismo, ADHD o altri disturbi neuroevolutivi.
- Al contrario, una metanalisi pubblicata su BMC Environmental Health lo stesso anno, che ha esaminato 46 studi, ha individuato una forte associazione tra uso di paracetamolo in gravidanza e autismo. Tuttavia, gli autori hanno sottolineato che si tratta solo di un’associazione statistica e non di una dimostrazione di causalità.
Gli esperti, in sintesi, consigliano un approccio equilibrato: uso giudizioso del paracetamolo, alla dose minima efficace e per il più breve tempo possibile, sempre sotto controllo medico.
Le critiche al dibattito politico
Le recenti dichiarazioni del presidente Trump, che ha invitato le donne in gravidanza a “resistere al dolore” e non assumere paracetamolo, sono state duramente criticate.
- L’Autism Science Foundation ha parlato di messaggio “scioccante e senza basi scientifiche”.
- Il presidente dell’American College of Obstetricians and Gynecologists ha definito l’annuncio “irresponsabile e pericolosamente fuorviante”.
- Numerosi pediatri e ricercatori hanno ribadito che semplificare un tema complesso come l’autismo a un solo farmaco è scorretto e potenzialmente dannoso.
Il consenso degli esperti è chiaro: l’autismo è una condizione multifattoriale, in cui entrano in gioco genetica, ambiente e altri fattori biologici. Non esiste un’unica causa e non esiste, al momento, una cura risolutiva.
Leucovorin: il primo farmaco approvato dalla FDA per l’autismo
Una novità importante arriva invece dalla ricerca sui trattamenti. La FDA ha approvato il leucovorin, una forma di acido folico ad alto dosaggio già utilizzata in oncologia, come primo farmaco ufficialmente riconosciuto per l’autismo nei bambini.
- Alcuni studi preliminari suggeriscono che il leucovorin possa aiutare in particolare i bambini con deficit di folati cerebrali o con anticorpi che ostacolano l’ingresso del folato nel cervello.
- I risultati più incoraggianti riguardano miglioramenti del linguaggio e della comunicazione verbale in alcuni bambini.
Tuttavia, gli stessi ricercatori sottolineano che non esiste una “pillola dell’autismo” e che il leucovorin non rappresenta una soluzione universale. Sono necessarie ulteriori ricerche cliniche per capire meglio a chi e in quali condizioni questo farmaco può davvero essere utile.
L’importanza di un approccio personalizzato
Secondo l’American Academy of Pediatrics e altri esperti, l’autismo richiede un approccio multidimensionale e personalizzato, che combini:
- interventi educativi e comportamentali,
- supporto relazionale e sociale,
- eventuali trattamenti farmacologici,
- programmi individualizzati in base alle esigenze del bambino e della famiglia.
Gli studi genetici, inoltre, mostrano che oltre 100 geni diversi possono essere coinvolti nello spettro autistico, rendendo poco plausibile l’idea che un singolo fattore — come il paracetamolo — possa spiegare la condizione.
Conclusione
Il dibattito su paracetamolo e autismo è tutt’altro che chiuso, ma la scienza invita alla cautela e alla complessità, non a semplificazioni. Il paracetamolo, se usato in modo corretto e sotto indicazione medica, rimane considerato sicuro in gravidanza. Parallelamente, l’approvazione del leucovorin come trattamento rappresenta un passo avanti importante, ma non una cura definitiva.
In attesa di nuove ricerche, il messaggio chiave rimane chiaro: l’autismo non ha una singola causa e non ha una soluzione unica, ma richiede percorsi individualizzati e un sostegno continuo a famiglie e bambini.