
L’esame della translucenza nucale potrebbe essere il primo segnale ecografico di un problema immunitario materno, a causa del quale il nascituro potrebbe sviluppare autismo. È quanto emerge da uno studio condotto dall’Istituto di Ricerca Altamedica e pubblicato sulla rivista internazionale Brain and Behavior, che propone una nuova lettura di questa ecografia, eseguita nel primo trimestre di gravidanza (solitamente tra l’undicesima e la tredicesima settimana) per stimare il rischio di eventuali anomalie cromosomiche/genetiche, come la trisomia 21 (Sindrome di Down), la trisomia 18 (Sindrome di Edwards) e la trisomia 13 (Sindrome di Patau).
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Translucenza nucale: cos’è e a cosa serve
Nella zona posteriore della nuca del feto c’è un’area (plica nucale) in cui, a partire dalla decima settimana, si forma naturalmente una raccolta di liquido, che aumenta nelle settimane successive per poi scomparire dopo la quattordicesima. Questa zona non riflette gli ultrasuoni, risultando completamente scura (anecogena) e traslucida, quindi l’ecografia – generalmente eseguita esternamente, sull’addome materno – è in grado di misurarne lo spessore. Oltre alla translucenza nucale, si esaminano l’osso nasale, le flussimetrie cardiache e l’anatomia fetale valutabile nel primo trimestre di gravidanza.
Prima di fare l’esame della translucenza nucale la donna, tra la nona e l’undicesima settimana, deve essersi sottoposta a un prelievo di sangue (chiamato Bitest), per valutare il dosaggio della frazione libera dell’ormone Gonadotropina Corionica Umana (Free Beta HCG) e della proteina placentare associata alla gravidanza (PAPP-A).
I risultati dell’ecografia e dell’esame del sangue (insieme formano il cosiddetto Test Combinato) vengono inseriti in un software che, in base anche ad altri dati relativi alla donna (come l’età anagrafica), del feto e della gravidanza in generale, stima il rischio di difetti cromosomici del feto e di anomalie fetali maggiori (per esempio malformazioni cardiache, anomalie scheletriche e neuromuscolari, sindromi genetiche come la Sindrome di Noonan). In linea generale, maggiore è lo spessore della translucenza nucale e maggiore è il rischio che il feto sia affetto da anomalie cromosomiche.
Autismo e translucenza nucale: quale legame?
Tuttavia, lo studio dell’Istituto di Ricerca Altamedica suggerisce che un marcato aumento della translucenza nucale nel feto, in assenza di anomalie cromosomiche note, potrebbe essere il segnale di un problema immunitario materno in grado di interferire con lo sviluppo cerebrale del feto e di favorire l’insorgenza di autismo.
Translucenza nucale marcata con test genetici negativi potrebbero predire l’insorgenza di autismo
I ricercatori hanno analizzato 3.600 ecografie, concentrandosi sui 27 feti con translucenza nucale marcatamente elevata. Dopo aver escluso difetti cromosomici e genetici presenti in 16 casi (accertati mediante villocentesi, amniocentesi, cariotipo e array-CGH, l’attenzione si è spostata sugli 11 feti rimanenti, con translucenza nucale elevata ma genetica fetale negativa.
Gli studiosi hanno misurato nelle future mamme gli autoanticorpi anti-recettore alfa del folato (FRAA), proteine che possono bloccare l’assorbimento della vitamina B9 (folati), cruciale per lo sviluppo cerebrale: 4 madri su 11 sono risultate positive per questi autoanticorpi e il 100% dei loro figli (cioè 4 su 4) ha ricevuto una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico tra i 2 e i 3 anni di vita. Tra le 7 madri risultate negative, solo 1 bambino ha sviluppato autismo.
Per la prima volta è emerso un collegamento diretto tra la translucenza nucale marcatamente aumentata, test genetici negativi, la presenza di FRAA materni e una successiva diagnosi di autismo nel 100% dei casi osservati. «Questo studio, sebbene preliminare, ci dice che la translucenza nucale marcatamente aumentata può essere anche la prima spia ecografica di un problema immunitario materno che impedisce ai folati di raggiungere adeguatamente il cervello del feto. Stiamo aprendo uno scenario completamente nuovo: non solo identificare un rischio, ma potenzialmente intervenire per prevenirlo», spiega Claudio Giorlandino, direttore scientifico dell’Istituto di Ricerca Altamedica.
Verso una prevenzione possibile?
Nei casi di translucenza nucale marcata e test genetici negativi, il dosaggio degli autoanticorpi anti-recettore del folato nella madre potrebbe infatti diventare un test cruciale da affiancare allo screening prenatale. «Una profilassi ad alte dosi con acido folinico, una forma attiva di folato, potrebbe proteggere lo sviluppo cerebrale del feto. Questa ipotesi è ora in fase di conferma in ampi studi clinici controllati, come il FraFol RCT Study dell’Altamedica», afferma l’esperto.
La ricerca apre la strada a un possibile cambio di paradigma: dall’individuazione tardiva del disturbo a una strategia di identificazione precoce del rischio e, forse, di prevenzione. Un passo che, se confermato da altri studi futuri, potrebbe avere un impatto significativo sulla medicina prenatale e sulla salute neuropsichica dell’infanzia.




