Disabili

Tra superfluo e necessario

La sottile linea di confine tra superfluo e necessario, per molte famiglie, si è sciolta al sole della Manovra economica. Forse sarebbe meglio dire delle manovre. Guardatevi intorno, tanta gente sulle strade dello shopping e pochissima all’interno dei sempre scintillanti negozi. Se poi si getta uno sguardo tra colleghi, conoscenti ed amici, c’è chi si lecca le ferite per un’età di pensionamento che di colpo si sposta avanti di 5 o 10 anni, chi calcola quanta parte dello stipendio eroderanno l’imu e gli altri balzelli approvati a dicembre e chi, poi, questi calcoli non li fa più perché è già certo che si potrà permettere solo i generi di prima necessità.

La sottile linea di confine tra superfluo e necessario, per molte famiglie, si è sciolta al sole della Manovra economica. Forse sarebbe meglio dire delle manovre. Guardatevi intorno, tanta gente sulle strade dello shopping e pochissima all’interno dei sempre scintillanti negozi. Se poi si getta uno sguardo tra colleghi, conoscenti ed amici, c’è chi si lecca le ferite per un’età di pensionamento che di colpo si sposta avanti di 5 o 10 anni, chi calcola quanta parte dello stipendio eroderanno l’imu e gli altri balzelli approvati a dicembre e chi, poi, questi calcoli non li fa più perché è già certo che si potrà permettere solo i generi di prima necessità.

Il 2012 è iniziato così. Nascosti dietro tanti paroloni – spread, debito sovrano, banca centrale europea – spariscono i tanti sacrifici delle famiglie italiane. Tutti si fanno i conti in tasca, ma forse facendoli si dovrebbe pensare anche a chi realmente ha varcato la soglia, di non ritorno, della povertà. Pensare a padri e madri di famiglia che, dopo aver perso il lavoro, arrabattano una sorta di cena per la loro prole. O quei genitori che avendo un figlio portatore di handicap fino all’altro ieri risparmiavano fino all’ultimo centesimo per lasciare qualcosa al pargolo per quando «non ci saranno più loro a prendersene cura». E che ora non riescono più.

Gruppo San Donato

Nelle nostre menti spesso vogliamo cancellare la parola povertà: la consideriamo una situazione di altri tempi, la collochiamo in Paesi esterni alla Penisola, la releghiamo all’Africa o ai paesi del terzo e quarto mondo. Oppure la leghiamo ad eventi tragici come alluvioni, carestie o peggio alle guerre. Eppure la povertà non è troppo distante da noi. Se ci si pensa bene tutti noi conosciamo qualcuno che non arriva a fine mese. Le file del pane davanti all’opera San Francesco di Milano si allungano ogni giorno di più. E non siamo in Uganda, siamo nel centro della penisola italiana, nella città che per anni è stata considerata la locomotiva economica del Bel paese.

Per troppo tempo forse si è perso di vista un concetto banale, ma vitale. Non sono i soldi la ricchezza di un paese, bensì il lavoro. L’abbaglio di denaro facile grazie alla Borsa ha fatto dimenticare che una nazione in cui non c’è lavoro non crea ricchezza e benessere (inteso come un livello minimo di sussistenza dignitoso). Era dal lavoro che si doveva partire per studiare il progetto Italia. Non dai tagli indiscriminati.

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