Benessere

Canto: tutti i benefici di questa pratica

Lo dice la scienza: intonare una canzone assicura molti benefici sia fisici che psicologici. Ecco i consigli per prendersi cura delle corde vocali ed esprimersi al meglio con questa forma d’arte

Cantare fa bene, più di una medicina. Perché il canto spontaneo aiuta a migliorare la respirazione, allontana l’ansia e i pensieri cupi, ossigena la mente, sincronizza il battito cardiaco e allenta le tensioni muscolari, soprattutto quelle del collo e del viso, con una naturale azione rilassante e antiage. E se è vero che già Miguel de Cervantes sosteneva che «chi canta spaventa tutti i mali», oggi numerose ricerche scientifiche certificano che il canto – individuale ma soprattutto di gruppo – solleciterebbe il lobo temporale destro del cervello, quello che governa le capacità immaginative e le funzioni creative, e favorirebbe il rilascio di serotonina e ossitocina, gli ormoni che ci rendono più socievoli e ottimisti e, in aggiunta, agiscono anche da antinfiammatori e immunostimolanti.

Oggi si canta poco rispetto al passato

Eppure sempre più di rado capita di ascoltare per strada uno stornello improvvisato o di sentire qualcuno che ripete a modo suo un motivo noto, senza pretese, lasciandosi andare alla gioia della voce. «In effetti, una volta si cantava molto di più: cantavano le massaie mentre lavoravano in casa, i carpentieri sui ponteggi, il falegname, il fattorino, i ragazzi sul pullman della gita scolastica, i genitori e i figli in auto sulla strada delle vacanze», osserva Paolo Caneva, docente di musicoterapia al conservatorio di Verona. «La canzone un tempo nasceva in famiglia, accanto alle culle o fra gli anziani, nelle osterie, nei campi e intorno ai lavatoi: ci si trovava nelle stalle dopo una giornata di lavoro o sulle aie e si imparava a cantare quasi per osmosi, ed era naturale che fosse così. Oggi, paradossalmente, siamo immersi in un’overdose di musica di tutti i generi, molto ascoltata ma poco agìta.

Gruppo San Donato

Grazie alla moltiplicazione dei device, è come se avessimo sempre aperte le porte di un’immensa pasticceria dove si entra gratis ventiquattr’ore su ventiquattro e in cui ci si abbuffa passivamente di sonorità spesso scadenti, ma il canto genuino latita. In un’ideale scala dei benefici, al primo posto si collocano il fare musica e il cantare in prima persona, poi viene l’ascolto live e solo al terzo posto arriva la fruizione del suono registrato. In pratica, ci stiamo saturando di surrogati musicali digitali, ed è come se gustassimo la fotografia di una mela invece del frutto vero. Purtroppo la pandemia ha contribuito a ridurre la dimensione partecipativa dei concerti dal vivo e dei cori, anche se durante il primo lockdown si suonava e si cantava sui balconi. Dopo questa fase di ritrovato entusiasmo, però, abbiamo perso di nuovo la sana abitudine di creare musica dal vivo con la nostra voce».

La voce è l’impronta sonora dell’anima

Come è possibile recuperare la dimensione ludica e terapeutica del canto? «Per prima cosa, si devono mettere da parte la timidezza e l’ansia da performance che ci portano a chiederci se abbiamo abbastanza fiato, se siamo intonati, se la nostra esecuzione sarà gradita… La voce è l’impronta sonora dell’anima perché ha un legame molto intimo con la dimensione emotiva, e la musica e il canto sono una necessità dell’essere umano come quella di mangiare: sono bisogni profondi che vanno assecondati in assoluta libertà», avverte Caneva, che canta, compone ma suona anche chitarra, percussioni, fisarmonica e pianoforte. E poi è indispensabile cercare di riportare allo scoperto la nostra voce più vera e autentica, quella che Milena Origgi, nota a livello mondiale come The Voice Guru, attiva da oltre vent’anni negli Stati Uniti e conosciuta a livello internazionale per i suoi corsi di vocal training, ha ribattezzato Inborn Voice. «La Inborn Voice è un’impronta sonora che ci caratterizza in maniera peculiare e che, nonostante lo scorrere del tempo, rimane sempre la stessa, ma se non è nutrita e se viene trascurata, si indebolisce e piano piano si spegne», fa notare l’esperta.

In cosa consiste il programma di Riallineamento Vocale™

«Quando si soffre di afonie o di mal di gola ricorrenti, quando cantare costa fatica o se si preferisce stare in silenzio piuttosto che unirsi a un allegro karaoke di gruppo, intervenire con ginnastiche e vocalizzi basati su tecniche standard, che non tengano conto della componente emozionale della fonazione, non serve a nulla», avverte Origgi, che è autrice dei saggi La Guru della Voce: storie di magia e rinascita e La via della Voce: nascondere un segreto sulla bocca di tutti, oltre che di un ebook gratuito (L’arte di mantenere sana la voce) che si scarica su www.inbornvoice.com. «Per questo ho messo a punto il programma di Riallineamento Vocale™, un protocollo che non permette solo di migliorare le modalità comunicative e canore, ma lavora più in profondità, perché aiuta a riconnettere voce ed emozioni», chiarisce la vocal coach, la prima ad aver collaborato in qualità di Topic Expert con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Università Bocconi di Milano.

«È importante sapere che, quando si parla o si canta, bisogna sempre fermarsi prima di iniziare ad avvertire dolore o affaticamento, che occorre rispettare le caratteristiche naturali della voce, evitando inutili virtuosismi e pericolose forzature, che la voce si allena con suoni costanti, gli unici capaci di esercitare in modo corretto ed efficace la voce e di rieducare l’orecchio all’ascolto. E, soprattutto, non vanno mai sottovalutati i sintomi: se si soffre spesso di raucedine, mal di gola, bronchiti o mal di stomaco, forse stiamo utilizzando in maniera sbagliata la nostra voce. Tutti gli sforzi, inclusi quelli vocali, passano infatti per il diaframma, il muscolo posizionato fra il torace e l’addome. Se per esempio si canta sgolandosi troppo o se, all’opposto, si trattiene la voce, il diaframma viene compresso e si irrigidisce, ed è per questo che possono comparire gastrite e reflusso gastroesofageo».

Le regole di igiene vocale

Fra le regole di igiene vocale, Milena Origgi, che è anche creatrice di una app gratuita scaricabile tramite il QR code pubblicato su L’arte di mantenere sana la voce (Ed. InbornVoice), raccomanda di «bere spesso e di più, i famosi due litri di acqua e infusi al giorno, perché la carenza di liquidi disidrata le corde vocali. Sono poi da evitare il fumo, che priva le corde vocali di quella sottile pellicola che le conserva morbide ed efficienti, e i latticini, che aumentano le secrezioni e favoriscono la raucedine». Per rendere la voce più duttile e cristallina, «sono ottimi gli integratori a base di curcuma, il miele e la propoli, e per idratare l’apparato fonatorio sono portentosi i centrifugati verdi, per esempio a base di spinaci, sedano e cavolo nero, con l’aggiunta di ananas, mele e arance, ricchi di vitamina C e di zolfo, che proteggono il sistema respiratorio».

La potenza del coro

E per recuperare i benefici del canto, «non appena ne avremo di nuovo la possibilità sarebbe utile tornare a cantare in gruppo, magari anche scrivendo canzoni nostre, perché stare dentro al suono insieme con altri è un’esperienza sana, appagante, sociale e quindi anche curativa», suggerisce Paolo Caneva. Lui, che è esperto di songwriting e sul tema ha scritto anche due saggi – Songwriting. La composizione di canzoni come strategia di intervento musicoterapico, Armando Editore, e, con Luca Xodo, Antologia di canzoni fragili, Gesualdo Edizioni – fa notare come il processo che si mette in atto per creare un testo, la musica e l’arrangiamento di un brano originale rappresenti di fatto «un’operazione che sfrutta la forza terapeutica della parola cantata per portare allo scoperto sofferenze e disagi che riguardano, per esempio, persone malate e disabili.

Ma, anche al di fuori delle situazioni di fragilità specifica, bisogna andare oltre il tabù dell’incompetenza e convincersi che ognuno di noi può e deve cantare: è un’occasione unica per riappropriarsi di un’oasi di respiro all’interno di una società in cui la nostra voce si va perdendo dentro un pericoloso e omologante brusio di fondo. Se è vero che il corpo, con il gesto ritmico e istintivo del percuotere, ci ancora a terra, è solo con la voce che si vola in alto verso il cielo». In fondo, lo aveva già intuito Domenico Modugno, autore di uno dei successi sanremesi più cantati di tutti i tempi: Nel blu dipinto di blu.

Le note dell’arpa proteggono da ansia e invecchiamento precoce

Regina dell’orchestra, dove è approdata come presenza stabile nel Seicento, l’arpa è uno degli strumenti più «curativi» in assoluto. Tutti conoscono la monumentale arpa a pedali da concerto, ma esiste anche la più piccola e maneggevole arpa celtica, che già prima della pandemia veniva utilizzata a scopo terapeutico in case di riposo, hospice, palestre e asili: contesti in cui garantisce a chi la ascolta (e la suona, magari accompagnandosi anche con la voce) straordinari benefici psicofisici. «Ormai anche la ricerca medica ha riconosciuto che la musica dell’arpa ha un’ottima funzione riequilibrante e antistress», conferma Eleonora Perolini, diplomata in arpa al Consevatorio G. Verdi di Milano e fondatrice a Biella della Scuola di Arpa Curativa Italiana Arpademia, la prima in Italia con comunicazione al Ministero della Salute nel 2001. «Sono proprio le onde emesse dalla vibrazione delle corde, molto rassomiglianti alla voce umana ma senza caratteristiche emozionali, che, filtrando attraverso la dimensione liquida del corpo – noi siamo fatti per il 70% di acqua – sortiscono un effetto riarmonizzante a livello emozionale e neurovegetativo».

Come è stato verificato da test condotti all’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, con l’endocrinologo milanese Massimo Valverde «il suono dell’arpa modula la sintesi della prolattina, l’ormone secreto dall’ipofisi che ha un’intensa azione calmante», sottolinea Perolini, che è anche presidente dell’associazione Arpademia (www.arpademia.net). «Quando si allenta la morsa dell’ansia, migliora l’attività del diaframma e la respirazione diventa più libera e regolare, organi e tessuti risultano più ossigenati e tutto l’organismo recupera tono e vitalità». Si spiega così l’azione pacificante dell’arpa su donne in gravidanza, malati di cuore, pazienti affetti da patologie oncologiche o degenerative, ma anche su neonati prematuri e anziani. «L’idea di offrire alle persone in età geriatrica la possibilità di avvicinarsi alla musica nasce da osservazioni sulla longevità dei musicisti e soprattutto delle arpiste», spiega la docente che, oltre a proporre corsi online, in epoca pre Covid ha condotto una fortunata serie di incontri di arpaterapia per la terza età all’Istituto Piero Redaelli di Milano. «Il nome latino harpa deriva da un termine germanico che significa pizzicare, e non a caso pare che i movimenti delle dita e dei polsi, necessari per accarezzare le corde, aiutino a risvegliare le aree del cervello legate alla percezione tattile e alla capacità di coordinamento motorio, che magari nel tempo sono state poco stimolate e rischiano di atrofizzarsi».

La musica «dirige» il bisturi del chirurgo

Musica e canto ormai hanno libero accesso anche in sala operatoria, dove sempre più spesso vengono impiegati come «strumenti» di mappatura per prevenire i potenziali danni provocati da un intervento chirurgico. Nel 2014, all’Ospedale Henri Mondor di Parigi, la cantante professionista guineana Alama Kante è stata invitata a gorgheggiare sotto ipnosi mentre i medici le rimuovevano una neoplasia dalla gola, in modo che si potessero fermare prima di danneggiarle le corde vocali, mentre nel 2015 alla clinica di Nossa Senhora da Conceição a Santa Catarina, in Brasile, Anthony Kulkamp Dias, un 33enne bancario con un passato da musicista professionista, ha cantato e suonato brani dei Beatles alla chitarra in anestesia parziale durante l’asportazione di un tumore al cervello (nella foto).

Anche in Italia nel 2017, nel reparto di neurochirurgia dell’Ospedale S. Anna di Ferrara, un musicista è stato operato in condizione vigile mentre suonava il clarinetto: con la modalità della cosiddetta awake surgery (chirurgia da svegli), e grazie al monitoraggio dei segnali neuroelettrici rilevati da speciali apparecchiature mentre il paziente eseguiva i diversi brani, è stato infatti possibile estirpare un tumore evitando di provocare lesioni irreversibili alle aree del cervello che governano il linguaggio, il movimento, l’ascolto e le funzioni cognitive più complesse. Nel 2019 al Bufalini di Cesena un pianista è stato operato (sempre al cervello) in stato vigile mentre eseguiva alcune melodie alla tastiera: l’intervento è stato condotto da un team di neurochirurghi che si sono specializzati all’Università di Montpellier alla guida di Hugues Duffau, noto a livello internazionale come uno dei pionieri della awake surgery. Durante l’operazione è stata tenuta sotto controllo la capacità del pianista di riconoscere ritmi e tonalità, in modo da localizzare ed eliminare la massa tumorale senza conseguenze sulle capacità percettive e motorie dell’artista. E qualcosa di simile è accaduto nella primavera del 2021 all’Ospedale Garibaldi-Centro di Catania, dove l’équipe di neurochirurgia guidata da Giovanni Nicoletti ha rimosso con successo una lesione malformativa vascolare nell’area del linguaggio a una paziente di mezza età, che nel corso dell’intervento in awake surgery si è esibita in diversi successi di Mina.

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