
«Ho iniziato a recitare perché volevo conoscermi. Sono entrata alla scuola del teatro Piccolo di Milano guidata da questo desiderio. Negli anni, attraversando momenti difficili, ho capito che il mio lavoro era anche una valvola per comprendermi, una forma di purificazione. Una terapia, se vogliamo. Credo che prendersi cura di sé sia fondamentale. Io ho scelto questa modalità, altri lo fanno arrampicandosi in montagna. Ognuno trova il suo sistema». Sonia Bergamasco, è tra le attrici più apprezzate della sua generazione.
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Vorrei partire da un punto che forse per un’attrice è scontato, ma non lo è per tutti: Sonia Bergamasco come entra in un personaggio?
«Ci sono scuole di pensiero molto diverse, ma la verità è che c’è una parte, una bella parte, di mistero. Io posso dirle come lo vivo oggi, ma resta comunque qualcosa di inspiegabile, e forse per fortuna. È come una chiamata, un’intuizione. A un certo punto mi accade di sentire una sorta di armonia con la figura che interpreto. Qualcosa mi risuona dentro. Non è razionale, succede e basta. È una vibrazione che si attiva. A volte leggi un copione, una parte, e non accade niente: allora è meglio lasciar perdere. Altre volte, invece, approfondisci e senti che ti riguarda. Capisci che quella cosa la puoi dire, la puoi vivere, che quel corpo può essere abitato dal tuo e che insieme si può creare un’alchimia per generare qualcosa di nuovo, una terza cosa».
Dev’essere un momento molto intenso.
«Sì, lo è. Ma per me è un processo del tutto intuitivo. Negli anni ho studiato molto, ho cercato tanto. Probabilmente anche per fragilità, per insicurezze, per cercare di armarmi degli strumenti necessari. Ma oggi so che, senza un’attivazione istintiva − quasi animale −, tutto quello studio non serve. È necessaria una disponibilità totale, nuda, a far parte di qualcosa».

Molti attori raccontano che, quando entrano in un personaggio, vivono una sorta di meditazione: riescono a dimenticare i problemi della vita. È così anche per lei? Si dimentica di Sonia Bergamasco?
«No, io non dimentico niente, per me è fondamentale restare consapevole. Mi abbandono totalmente, ma con la massima lucidità. Perché sento che questa pratica, questa energia che si attiva ogni volta, ha un potere rivitalizzante in grado di rigenerare il corpo, ma anche parti di noi che magari si sono incrostate e irrigidite. Non sono immersa in qualcosa che mi fa dimenticare tutto il resto: sono su un filo sottile, sul vuoto, ma cammino con consapevolezza, grazie a una tecnica che ho costruito negli anni».
Lei ha anche un lato comico che ha divertito molto il pubblico. Quanto la aiuta questa parte comica a essere più leggera nella vita?
«Moltissimo. La scoperta della comicità – o meglio la riscoperta, perché era un aspetto che avevo già dentro di me, ma che non avevo sperimentato nel mio mestiere – è esplosa a un certo punto, con la giusta storia e le giuste persone. Continuo a pensare che la commedia sia una cosa molto seria. Anche perché c’è una fisicità, un tipo di colori, di modi, che possono, come cliché, rimandare subito a un certo tipo di donna, che in realtà mi è distante. Però mi piace raccontare anche quel cliché, mi piace giocare proprio con questi stereotipi, e poi capovolgerli».
Anni fa in un’intervista l’attrice Virna Lisi mi disse che le piaceva entrare in un personaggio perché era una forma di sublimazione. Poteva essere anche cattivissima, o una prostituta, e vivere così certe emozioni che nella vita reale non avrebbe mai espresso.
«Sì, esiste il gioco. Io, più dei metodi − che pure stimo e considero strumenti importanti − mi identifico proprio con questa idea del gioco, che ha a che fare con l’infanzia, con il bambino che passa da una voce all’altra, da una storia all’altra, senza soluzione di continuità. E in quel passaggio racconta se stesso e gli altri. Il bambino interpreta ruoli: un giorno è un drago, un altro un aeroplano. Sono situazioni che evidentemente non vivrà durante la sua esistenza, ma che lo aiutano a sperimentare meglio le sue emozioni. Noi lo facciamo su un palco o dietro la macchina da presa. Credo che questo sia il cuore segreto del nostro mestiere».
Un’ultima cosa: mi colpisce sempre che molti attori, pur sapendo reggere il palcoscenico, nella vita siano molto timidi. C’è chi inizia a recitare proprio per vincere la timidezza. Lei si reputa una persona timida?
«Molti non ci credono, e pensano sia civetteria, ma è vero, lo confermo, molti miei colleghi sono timidi. Io personalmente non ho iniziato a recitare per questo motivo, ma il mestiere mi ha aiutato tantissimo a stare bene nel mio corpo, a prendere voce, a superare fragilità e insicurezze. Le chiami pure timidezze, se vuole. Il teatro mi ha insegnato a vivere meglio con me stessa».