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Dopo la morte il Dna resta “acceso”, per diversi giorni

L'incredibile scoperta fatta nei pesci e nei topi apre nuovi scenari: potrà migliorare le tecniche di trapianto degli organi e aiutare gli investigatori a stabilire l'ora del decesso delle vittime

Esiste vita dopo la morte? A quanto pare sì, almeno nel Dna. I geni, infatti, possono restare “accesi” e funzionanti per diversi giorni dopo il decesso. Lo hanno scoperto i ricercatori dell’Università di Washington a Seattle studiando i topi e i pesci normalmente allevati in laboratorio. I risultati, pubblicati per ora sul sito BioRxiv (che non richiede la revisione della comunità scientifica) apre nuovi scenari, soprattutto per quanto riguarda i trapianti d’organo e la medicina forense, chiamata a pronunciarsi sull’ora del decesso delle vittime di omicidio.

Quando un organismo muore, non tutti i processi biologici cessano improvvisamente: molte cellule continuano a svolgere alcune attività al loro interno per molte ore dopo il decesso.

Gruppo San Donato

Precedenti ricerche, condotte analizzando sangue e tessuti di fegato da cadavere, avevano mostrato un’attività post-mortem di alcuni geni. Il microbiologo Peter Noble e i suoi colleghi ne hanno valutati sistematicamente oltre 1.000, nei tessuti di pesci zebra e topi di laboratorio morti da poco. Sono così riusciti a mappare l’attività di centinaia di geni “zombie”, ancora accesi dopo la morte, con un record nei pesci: ben quattro giorni.

Molti di questi geni attivi post-mortem svolgono attività necessarie nei momenti di emergenza (come quelli che accendono il sistema immunitario). Altri, con grande sorpresa dei ricercatori, sono geni coinvolti nello sviluppo dell’embrione: attivi nelle fasi iniziali della vita, restano silenziosi per tutta la fase adulta e finiscono con il “risvegliarsi” inspiegabilmente dopo la morte.

Altri geni ancora sono noti per essere legati alla formazione e allo sviluppo dei tumori. Questa scoperta, afferma Noble, potrebbe aiutare a capire come mai le persone che ricevono un trapianto da un donatore morto di recente hanno un più elevato rischio di cancro.
Secondo il farmacologo Ashim Malhotra della Pacific University, in Oregon, che non è stato coinvolto nella ricerca, «si tratta di uno studio interessante, che potrebbe» essere usato in futuro per mettere a punto «un dispositivo diagnostico in grado di predire la qualità di un trapianto».

«Sono risultati davvero interessanti», commenta il genetista Giuseppe Novelli, rettore dell’università di Roma Tor Vergata. Conoscere e capire tutti questi geni è il prossimo obiettivo della ricerca e le ricadute promettono di essere interessanti in molti campi. Per esempio, potrebbe diventare possibile controllare l’attività di alcuni geni per conservare più a lungo e in sicurezza gli organi espiantati e destinati ai trapianti. Altri geni potrebbero entrare a far parte della “cassetta degli attrezzi” dei medici legali per ricostruire con maggior precisione l’ora del decesso delle vittime. Sapere quali geni continuano a funzionare post-mortem e per quanto tempo restano attivi dopo il decesso potrebbe, per esempio, aiutare a datare i campioni biologici presenti sulla scena del crimine.

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